Letture

UN'INFANZIA FELICE

Non so quale possa essere stata venticinque anni fa (ma anche ora!) la vita di un bambino di città, che vive in un appartamento. Il significato – fra l’altro – di appartamento è proprio quello di “appartarsi”, “isolarsi”. Credo che in città giochino comunque un ruolo predominante la strada, il marciapiede, la piazza, i portici, i giardini….

So – invece – come era (e come ancora in buona parte è) la vita di un bambino di campagna. Ho vissuto e vivo in campagna; anzi – e posso veramente dirlo – sono nato in campagna così come ho visto nascere a casa mia anche mio fratello Raffaele. Ora si va a nascere all’ospedale!! Queste non sono cose da poco. È soprattutto un buon inizio. E prima di me ci sono i miei genitori, e prima dei miei genitori c’erano i miei nonni… e così via.
Una catena, o meglio, “un ciclo”. Ho trascorso un’infanzia felice. Passata soprattutto attorno alla mia casa. Ho giocato fin da piccolo con la terra e l’acqua. Non è di tutti i bambini potersi sporcare in mezzo ai canaletti d’acqua che portano da bere, in luglio, ai peschi o ai fagiolini rampicanti, o avere un “bancone” con gli attrezzi da falegname con cui potersi costruire i giocattoli di legno. È cosi che questi attrezzi, questi strumenti dei grandi si trasformano per noi bambini in macchine miracolose che trasformano la nostra vita. Ci danno la possibilità di farci da soli i nostri giochi, di gestirci il nostro tempo. Forse è proprio per questo che ho voluto attrezzare la sezione della scuola materna in cui lavoravo di un banco da falegname “vero”, con seghe, chiodi, martelli, raspe, pialle “veri”. Non so chi di voi abbia provato mai l’esperienza di andare per i campi, sotto enormi meli, durante una nevicata invernale o scorazzare per la campagna con gli amici dopo un furibondo acquazzone di una giornata, che trasforma tutti i campi in un’enorme palude. Per noi, bambini di campagna, le strade, le piazze, i giardini, i portici, sono i campi coltivati e non, i fossi, i filari d’uva, il fiume, il canale. Non passa giorno in cui non si inventi una nuova avventura. Il luogo ideale in cui rifugiarsi diventa “e capanín” (il capannino), costruito in legni, bastoni e juta. C’è un rapporto quotidiano con la terra, l’erba, l’acqua, i sassi, i frutti, gli animali della casa. E’ un rapporto carico di odori e di sapori. Ogni volta che sento gli odori e i sapori di queste esperienze, la memoria viaggia a quegli anni. Sono gli odori, i sapori e i suoni di cui è carico il momento in cui, in estate, dopo il tramonto, si torna a casa dai campi e ci si lava il collo, la faccia e i piedi, con l’acqua scaldata nelle bacinelle messe al sole nell’aia. Sono i sapori che emana la pelle frizionata dall’acqua e dal pezzo di sapone da bucato che si usa per questo vero e proprio rito. E poi il canto notturno dei grilli che pian piano sopravanza su quello giornaliero delle cicale, mentre le rondini in concerto cacciano gli insetti che la sera sono attratti dal calore dei muri, accumulato durante il giorno. Sono solo frammenti di un mondo che quotidianamente, nella sua apparente immobilità (agli occhi del cittadino) vive una miriade di esperienze. Ho visto mio padre Giorgio (con l’aiuto di mia madre Verdiana e dei miei zii) costruirsi da solo intere serre, smontarsi e rimontarsi la zappatrice, tirar su un enorme capannone, costruirsi per impianto di riscaldamento una stufa che possa bruciare segatura, trucioli, e fascine di legna.. E insieme ai vicini li ho visti (i miei genitori) ripulire il canale pieno di “malta” per permettere a tutti i contadini della zona di irrigare i campi. Non è retorica dire che fra la gente di campagna c’era (e forse ancora oggi in parte c’è) solidarietà, mutuo appoggio. Forse è la stessa struttura della famiglia che predispone a questo, oppure la struttura del podere o della casa. In casa, il camino della cucina non è qualcosa di cui far mostra: è il punto centrale della casa, insieme alla stufa (la cucina economica). Nel camino si può far la piadina, cuocere le castagne o fare grigliate usando sempre le fascine fatte coi residui delle potature degli alberi da frutta. Con la cucina economica si scalda l’ambiente, ma si può anche cuocere sulla piastra e nel forno, si possono tenere al caldo le scarpe o i calzettí, si scalda l’acqua ma si possono anche asciugare i panni, si prende il carbone per lo scaldaletto e si usa la cenere come concime. Quando si mangia niente finisce nella spazzatura. Gli avanzi dei piatti (bucce, ossa… ) finiscono nella scodella del cane o dei gatti, oppure nel letame insieme ai residui solidi degli animali (polli, conigli, maiali, pecore, mucche… ). Gli scoli dei lavandini o dei bagni confluiscono (insieme ai liquami degli animali) nella fossa biologica. Dal letame e dalla fossa biologica ne uscirà fuori l’humus per l’anno dopo. C’è un filo diretto fra l’esperienza vissuta in campagna, con la mia famiglia e la solidarietà che mi spinge verso i “campesinos” delle Ande latinoamericane, fra l'”abilità manuale” che ho acquisito nel tempo, a partire da quegli anni, e l’interesse per le Tecnologie Appropriate e Alternative e i modi di vita semplici. Nel momento in cui mi sono posto scientificamente, e non solo emotivamente, di fronte a queste tematiche, ho scoperto a quali leggi sottostà la vita della campagna, dei contadini e dell’agricoltura. La caratteristica principale che balza immediatamente agli occhi, nella vita e nel lavoro di campagna è la “ciclicità”. Ogni tipo di lavorazione, ogni processo di coltivazione ha un inizio legato a una fine, e una fine che si congiunge con un nuovo inizio. E tutto questo con un rendimento energetico massimo e dal minimo spreco. Anzi, direi col recupero, o meglio il “riciclo”, di ciò che in apparenza è considerato “scarto”. Non esiste infatti in campagna, il concetto di “rífiuto”, che si parli dei “vecchi” della famiglia, o che si parli della “merda” dell’uomo e/o degli animali. Ogni cosa, ogni essere ha in sè un valore (al di là del fatto che si possa vendere o meno) per quello che è stato, per quello che è e per quello che sarà.

 

 

Gianfranco Zavalloni