Letture

UNA PASSIFLORA E UNO SCHELETRO DI ERBA LUIGIA NELL'ARMADIO

Così quest’anno ho finalmente comperato una passiflora (Passiflora cerulea), per la bellezza del suo fiore, per il machismo della sua arrampicata, ma anche per un ricordo d’infanzia.
C’era una baracca in mezzo alla spiaggia fatta da quattro pali e un pezzo irregolare di lamiera fissata sopra, dentro vi era un tavolone massiccio presieduto da un signore pelosissimo in canottiera immacolata che armeggiava intorno a una leva lucente davanti agli sguardi ammirati di noi bambini: era l’uomo della granita. Con la sola forza di un braccio polverizzava interi blocchi di ghiaccio che prima staccava scalpellando da dentro un baule, e quell’anno ci aveva portato una sorpresa, una novità assoluta. Macché sciroppo di menta granatina o orzata, tutte in pensione! quell’anno era appena sbarcato dal Sudamerica lo sciroppo di maracuja. Color ambra, dolce ma piccante non si poteva non gustarlo, provarlo e riprovarlo, e anche…ballarlo. Eh si, perché aveva un suono talmente esotico maa-raa-cu-ssgia, che noi bambini ballavamo al solo sentirne la parola. E questo, credo, cambiò il sonoro dell’ infanzia di molti noi.
Dalla passiflora, dal suo frutto della passione, infatti, si ottiene il succo di maracuja, ed è in questo che mi vorrò cimentare.
Ho portato a casa la piantina, i rametti ricadenti tenuti ben fermi da tre cannucce, e mi sono messa alla ricerca di un vaso. La passiflora dicono che regga bene le temperature molto basse, ma per sicurezza almeno il primo anno ho deciso di tenerla in vaso. Ci voleva un vaso ben grande, sono andata nella serra-deposito per cercarne uno, ma non ho trovato nulla, stavo per decidermi all’acquisto quando ho scoperto, visitando il lato ovest del mio giardino che si, avrei avuto a disposizione un grande vaso, diametro cinquantacinque, perché  –ahimé-  la mia pianta di Erba Luigia (Lippia Citrodora o Aloysia Triphilla), detta anche Limoncella o Verbena Odorosa, giaceva davanti a me completamente seccata dal passato rigidissimo inverno, l’avevo coperta e protetta ma non era bastato. Mi avevano detto di tenerla sempre umida anche nella stagione fredda ma per paura che le gelassero le radici non ho seguito questo consiglio e adesso eccomi qui davanti il suo scheletro disseccato.
L’Erba Luigia si trova a cespuglio o ad alberello, più il clima è mite più diventa grande, a vederla sembra piuttosto insignificante con dei fiori in racemo piccoli e bruttini che sanno di amaro. Ma basta che le lunghe foglie, lanceolate ed eleganti, siano scosse da un refolo di vento o semplicemente sfiorarle con le dita e tutto intorno si riempie del suo profumo di agrume.
Ho cercato consolazione pensando che con le foglie secche, legate con rafia a segmenti dei suoi ramoscelli, potrò profumare armadi e cassetti, con effetto gradevole e antitarme. E che invece di preparare il famoso liquore digestivo limoncello di Erba Luigia, mi dedicherò a preparare il  maracuja.
Ho tolto la pianta secca con l’aiuto di un piccolo badile, era ben radicata e ho fatto fatica a estrarla completamente. Ho vuotato la terra rimanente come si fa con i budini, ovvero capovolgendo il vaso su un sacco di juta che uso per i rinvasi, e poi ho preso a rompere la grande zolla per riutilizzare la terra, arieggiandola e pulendola da radici vecchie che avrebbero potuto fare in seguito marciume.
Guardo il cielo che è azzurrissimo, ma sui monti c’è il cappello, come lo chiamano qui, di nuvole e questo significa pioggia certa in arrivo.
Persa in queste e altre considerazioni con il naso all’insù, non mi accorgo subito del solletichio che sento ai palmi delle mani, che intanto stanno continuando il loro lavoro frantuma-zolla, guardo di che cosa può trattarsi e non posso fare un balzo indietro perché sono ginocchioni ma un urlo esce spontaneo, in compenso, forte e terribile.
Davanti a me, sotto le mie mani, c’è un movimento incredibile, riconosco subito, facilmente, un gruppo di lombrichi (Lumbricus terrestris) carnosissimi rosato-bruni, tutti attorcigliati tra di loro, in perfetta armonia prima ma adesso infastiditi dai miei improvvidi massaggi; cercano di districarsi tra di loro e lo spettacolo non è tra i più seducenti.
Un po’ più in là da un’altra semizolla sta uscendo senza agitarsi ma spedito un millepiedi (Pachyiulus communis) di tre-quattro centimetri che prende senza alcun dubbio, e con classe, la clé des champs.
Rosso, con tanti piedi pure lui ma veramente incollerito si dibatte un geofilo (Geophilus), lungo, filiforme, sembra che abbia due teste alle estremità del corpo perché prima va da un lato, poi dall’altro e poi ancora di qua e di là, mentre si decide a quale direzione votare tutti quei piccolissimi fili motori che sono le sue innumerevoli zampe, mi accorgo che sotto ci sono innumerevoli geofilini di non più di un centimetro, dal colore più chiaro, aranciato quasi trasparenti, ma nervosi quanto mammà.
Non avendo con me gli occhiali da vista, ho dovuto chinarmi molto sulla zolla per studiarne la movida, e alla fine, riconosco da che parte ha la testa il geofilo grande perché su di essa vi sono delle minuscole antenne. Anche il geofilo capisce da che parte ha la testa e, con mio sollievo, si dirige verso il prato.
Ma le sorprese purtroppo non sono finite, spostando il vaso per svuotarlo, solo adesso me ne rendo conto dal segno della terracotta sull’acciottolato del cortile, si stanno svegliando e mettendo in moto un’altra infinità di zampe, diverse da quelle corte del millepiedi e del geofilo, queste sono lunghe e nere come quelle delle forbici (Forficula auricularia) o lunghissime, articolate al punto da sembrare antenne.
Tutte, indistintamente, si stanno ricomponendo e sgambettano come ballerine di fila durante l’avanspettacolo.
In un’altra occasione, presa di tenerezza come mi viene facile con tutti gli animali, avrei pensato “svegliatevi bambine, è estate”,  adesso sto solo pensando che sia meglio alzarsi da lì prima che il battaglione di mostri, magari per agitazione o per il troppo sonno si slanci dalla parte sbagliata, ovvero verso di me, invece di seguire il flusso condominiale che mi pare si stia, bene o male, dirigendo verso l’erba.
Mi alzo, appena in tempo per vedermi arrivare tra i piedi a tutta birra due centogambe (Scutigera coleoptrata) dal corpo dorato e maculato, un esemplare più grande di circa tre centimetri, l’altro più piccolo e tutto intorno una decina di litobi (Lithobius), neri rossastri veloci anche loro grazie alla loro formidabile trazione integrale, otto zampe per lato. Si vede che dormire in maniera prolungata, magari sei mesi di fila, fa bene alla salute e all’energia, qui adesso intorno ai miei stivali c’è un tale viavai da sembrare  le vie commerciali del centro cittadino il primo giorno dei saldi. Tutti corrono, chi verso prato, chi verso gli altri vasi, chi verso di me, io sola non riesco a estrarmi da una sorta di allarmata ebetitudine .
Ma come tutto è cominciato così tutto finisce, il pavimento del cortile si acquieta, solo la sezione lombrichi non è ancora ben riuscita a risolvere i dissidi familiari, – si sa, parenti serpenti! – così prendo tutta la zolla che li riguarda per depositarla in un angolo del prato, avranno tutto il tempo di chiarirsi fra loro, mentre smuoveranno utilmente la mia terra con il loro movimento e col nutrirsi di parti decomposte di piante.
Di ritorno dal prato mi rimetto diligentemente al lavoro, la mia porzione di zoologia oggi l’ho avuta. Ma non è finita. Sminuzzando ancora la terra del vaso, trovo una decina di larve enormi, bianche con la testa scura, grasse, di circa due-tre centimetri, ognuna abbozzolata su se stessa, quasi in uno stato di sonno mortale ma, manco a dirlo, appena vengono esposte alla luce del sole di giugno si stiracchiano come centometriste allo stretching prima della gara olimpica.
Quando, commentando la vostra pigrizia, qualcuno oserà dirvi “Sembri una larva”, mettete sotto gli occhi dei vostri detrattori queste poche righe. Le larve si muovono, eccome, cariche di vitalità, quando vengono distolte dai loro sogni di gloria, come ho fatto io pur senza volerlo.
Quando ci si imbatte in una larva, o in molte come è capitato a me, non si sa bene che cosa fare. Occorre, prima di eliminarle o spostarle o ignorarle, sapere di quale animale siano. Infatti, potrebbero appartenere al maggiolino (Melolontha melolontha) o all’ oziorrinco (Otiorhynchus) che provocano gravi danni all’orto, ma potrebbero anche essere del carabo violaceo (Carabus violaceo), gran divoratore di lumache e insetti nocivi o dello sicofante (Calosoma sycophanta) dalla livrea verde-blu metallico che distrugge i bruchi di insetti dannosi, in questo caso dovrei tenermele strette, superando l’orrore di trovarmele tra le mani.
Mentre mettevo finalmente la passiflora  nel suo nuovo ampio vaso, ho pensato a quanta “gente” -la più diversa- l’aveva eletto a proprio tranquillo condominio, un vero esempio moderno di pace multirazziale. E quanti di questi abitanti contiene la Terra tutta? E come sarebbe bello che un giorno, davanti all’ultimo sopruso perpetrato dall’uomo sulla Terra, decidessero di svegliarsi, insieme, miliardi di miliardi, e di ruggirci da sotto in su la loro più completa e totale disapprovazione.
Ilaria Beretta