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SELVATICO E COLTIVATO

Ecco qui il testo dell’intervento di Pia Pera al 6° convegno di Ortidipace (Cesena 11 settembre 2010)
Spero che i tanti spunti di riflessione qui contenuti possano essere di stimolo a tutti noi, a voi che create orti a scuola e vorreste magari intrecciare al tema del coltivato quello del selvatico. Insieme a me ha parlato Paolo Tasini, pioniere nel nostro paese del tema della selvatichezza, di cui vi invito a visitare l’interessantissimo sito www.attraversogiardini.it
SELVATICO E COLTIVATO
L’idea di questo convegno è nata dopo l’incontro con i fondatori di Wild Zones, incontrati a Roma un paio di anni fa.
Wild Zones è una realtà nata dal confluire di due percorsi. Karen Payne, statunitense, ha lavorato con varie ONG nell’ambito della costruzione di comunità attraverso gli orti sociali, mentre David Hawkins, inglese, è stato Direttore di Progetto del celebre Edible Schoolyard (cortile scolastico commestibile) di Berkeley, dove alla coltivazione vera e propria ha affiancato attività più libere e giocose. Li unisce la convinzione che  i cuccioli d’uomo abbiano bisogno di selvatichezza come dell’aria per respirare, soffocati come sono dalla routine di compiti a scuola e giochi elettronici al punto di manifestare talvolta sintomi da “Nature Deficit Disorder” (disagio da mancanza di natura): iperattività, difficoltà nell’apprendimento, obesità, depressione, comportamenti antisociali. Una delle ultime iniziative di Karen e David è il “Family Play Day” (giornata di gioco con tutta la famiglia).
Di recente questo loro progetto è approdato  a Roma (ogni sabato di maggio, 2010) ospitato da un museo molto speciale: Explora, dove i bambini apprendono il ciclo delle energie rinnovabili, la filiera del cibo, l’economia. La direttrice, Patrizia Tomasich, ha apprezzato il potenziale liberatorio ma anche formativo del Family Play Day per bambini di città,  inevitabilmente educati a diffidare di quanto trovano per terra nei parchi, a non sporcarsi le mani, a temere l’ambiente. Non senza ragione! Mentre nell’ambiente di ispirazione selvatica eppure protetto della Wild Zone, laboratorio all’aperto di creatività, è stato  possibile sperimentare il divertimento di arrampicarsi su un albero, pasticciare con fango e acqua, inventare nuovi giochi, costruire con canne e paglia una capanna, servirsi di quanto si trova a portata di mano – sassi, foglie, rami – per realizzare decorazioni, giochi, oggetti. In altre parole: attivare facoltà cognitive fondamentali ma troppo spesso dormienti, esercitando quelli che un grande maestro, Gianfranco Zavalloni, ha formulato come i diritti dei bambini (La pedagogia della lumaca, EMI). Esplorando quella dimensione del selvatico che Paolo Tasini propone su www.attraversogiardini.it. Vi invito a guardate lì anche le foto, forse più eloquenti di qualsiasi testo nel mostrare come non si possa parlare di infanzia veramente vissuta a meno di potere sprigionare immaginazione e energie nel libero corpo a corpo con la natura.
Ma torniamo a David e Karen, che pensavano di partecipare al nostro convegno ma poi, purtroppo, hanno incontrato alcune difficoltà a incontrarci.
Una cosa interessante è che David ha lavorato con ragazzi a problema ( juvenile delinquents). Anche durante il suo lavoro nello sviluppo delle Edible Schoolyard di Berkeley ha sottolineato soprattutto l’importanza del gioco: “C’è una questione a cui non faccio che tornare nel mio cercare una via di speranza nel mio lavoro con i giovani. Come far crescere una generazione di giovani che abbiano care la terra e le loro stesse vite? Adolescenti e bambini hanno tanto da dare, ma noi offriamo loro talmente poche occasioni di dare un contributo in modo gioioso ed energico”.
Ed ecco la sua esperienza: “Nonostante da adulto mi sia appassionato di giardinaggio, da bambino non mi piaceva affatto, e nemmeno da adolescente. Mi pareva un compito noioso, ed era fonte di conflitto coi miei genitori. Quanto ho detto a un vicino Afro-Americano del mio lavoro allo Edible Schoolyard, lui mi ha detto che la sua bisnonna era stata una schiava, e lui temeva che i bambini venissero costretti a lavorare in giardino come parte della loro giornata a scuola. Un’insegnante a scuola si è detta preoccupata che molti genitori di origine ispanica si sarebbero sentiti a disagio all’idea che i loro bambini svolgessero i compiti sporchi, di basso prestigio sociale, richiesti dal giardinaggio, proprio il genere di cose che loro speravano di fare evitare ai loro figli mandandoli a scuola”.
Qualcosa su cui riflettere, mandando i bambini a lavorare nell’orto, quando questi provengano non da famiglie della borghesia cittadina agiata, ma da famiglie in cui il lavoro dei campi è visto come qualcosa da cui emanciparsi. In un paese come il nostro, dove alcuni tra i nostri nonni si sono vergognati  delle loro origini contadine, questo può essere un fattore di cui tenere conto.
Sentiamo ancora David  Hawkins:  “Quello spiazzo d’asfalto pieno di erbacce e rifiuti si presentava come un assillo, e alcuni studenti si sono stupiti che ci si aspettasse che loro avrebbero creato un orto nell’orario scolastico, e senza venire pagati. Penso tuttavia che molti di loro abbiano provato interesse, vedendo quanta fede avevamo nel loro potenziale. La maggior parte degli orti e giardini scolastici sono creati da adulti esperti e talvolta da architetti paesaggisti. Sapevo quanto fosse importante che l’esperienza dell’orto fosse divertente e giocosa, se doveva conquistare i cuori della maggior parte dei bambini. Inoltre credo moltissimo nel valore del libero gioco. Il libero gioco sviluppa la nostra capacità di sentirci a casa nei nostri corpi e nel mondo intorno a noi. Ravviva il senso di connessione dei bambini col mondo, e l’uno con l’altro. È molto importante per il loro sviluppo sociale, promuove la loro capacità di mediare, di conversare, di provare empatia, di immaginare, di organizzare e comprendere. Il gioco è molto importante anche nel familiarizzare i giovani con la natura del mondo materiale da noi abitato e gli strumenti a nostra disposizione per entrarci in rapporto”.
Ed ecco come i ragazzi trasformano in gioco la distribuzione del compost, realizzando un piccolo disastro: “Quando abbiamo iniziato a creare l’orto, ci hanno portato un enorme cumulo di compost dal municipio, 24 tonnellate. La squadra a cui l’ho fatto vedere ha deciso di usare le carriole per trasportare il compost alle aiuole, e io ho mostrato loro come fare: prenderlo ai bordi in modo che il compost cadesse man mano giù dalla cima del mucchio. Un quarto d’ora dopo sono tornato a vedere come se la cavavano: avevano portato le carriole in cima al mucchio, e ci avevano fatto dentro  un cratere, trasformandolo in un vulcano fumante di polvere. Stavano calpestando il mucchio, compattandolo: proprio quello che avevo cercato di spiegare loro come evitare. Però la loro gioia nello scavare e nel creare gallerie nel compost caldo mi ha disarmato. Sapevo che doveva restare un’attività giocosa. Bisognava che restasse qualcosa di divertente, se volevamo che il progetto riuscisse”.
David Hawkins ritiene quindi ci vogliano pazienza e tolleranza verso bambini e ragazzi che non faranno necessariamente la cosa giusta dal punto di vista della produzione orticola. Lo scopo, del resto, non è trasformarli in operai agricoli, ma stimolare la loro curiosità per la natura, lasciare far loro esperienza.
“Mi rendevo anche conto che la relazione tra bambini e adulti che lavoravano in giardino doveva essere rispettosa, che era importante tollerare i modi diversi di rispondere a quell’esperienza. Quello che per alcuni studenti era un incontro ricco ed eccitante con la natura, per altri era un’esperienza potenzialmente umiliante di lavoro sporco, in un ambiente infestato da parassiti. Mediare simili differenze senza giudicarle era una sfida che meritava affrontare. Desideravo che l’orto diventasse un posto dove tutti i bambini si potessero sentire apprezzati e rispettati. Per alcuni che non riuscivano bene in classe era l’occasione di dimostrare la loro competenza in un’ampia gamma di situazioni pratiche e sociali, la possibilità di vedere le loro attività associate a un senso di riuscita anziché di fallimento”.
Quanto alla realizzazione dell’orto:  “L’orto non lo abbiamo nemmeno disegnato su carta. Abbiamo semplicemente cominciato a farlo, e per questo motivo ha avuto un sapore davvero speciale. I sentieri serpeggiano seguendo le aiuole curve. Campicelli di forma irregolare contengono ortaggi, erbe aromatiche, fiori e spontanee utili, e sono delimitati da rami d’albero”.
Quindi anche un uso originale dei materiali di costruzione: “I ragazzi  costruiscono di persona quasi tutto quello che serve nell’orto, posano i tubi di irrigazione, costruiscono terrazzamenti con muretti di cemento riciclato. Il coinvolgimento dei ragazzi ha avuto un effetto sui materiali scelti e sui metodi di costruzione. Desideravo un orto dove i ragazzi potessero sentirsi realizzati e conferire il loto tocco al luogo. Così invece di usare legname da costruzione che avrebbe richiesto precisione e strumenti inadatti a ragazzi di 11 o 12 anni, abbiamo usato rami d’albero trovati in giardino per fare le palizzate e costruire il nostro punto d’incontro, una struttura ombrosa che abbiamo chiamato il Ramada”.
Vi ricorda qualcosa, questo? Magari le capanna di salice costruite da Alberto e Andrea Rabitti?
Ancora David Hawkins: “Volevo che l’orto accadesse in modo non sistematico, che avesse una sua storia misteriosa che potesse venire dimenticata o favoleggiata, mai però ridotta a formula matematica o utilitaristica, o programma estetico. La mia speranza era far sì che l’orto diventasse un ambiente trasformativo, dove i bambini potessero trasformarsi, cambiare, semplicemente stando in questo posto che avevano contribuito a creare. È diventato un’opera d’arte collettiva. Alcune cose non sarebbero state mai fatte nella maggior parte degli orti dove si coltiva cibo, o dove gli adulti cercano di realizzare qualcosa di bello. I ragazzi hanno fatto un enorme nido con rami e ramoscelli, un nido dove potevano stare almeno quattro persone. La mia zone preferita dell’orto era il Fiume di Mezzo, che i ragazzi hanno cominciato a scavare spontaneamente, mentre cercavano di drenare una zona allagata dell’orto in cui volevano piantare dei meli, questo durante il nostro primo inverno fradicio successivo a  El Nino. Mai avevo visto una simile splendida applicazione giocosa di giovani energie da parte di così tanti giovani e per un lasso di tempo tanto lungo. La combinazione di acqua, fango, e buon umore, di dighe, alluvioni, scherzi e duro lavoro, è qualcosa che non capita spesso ai ragazzi di vivere”.
Lo spirito, quindi, è sperimentale, avventuroso, giocoso.
“I ragazzi hanno anche voluto recuperare una parte particolarmente inselvatichita del sito, tagliando e sradicando dei cotone aster molto invadenti, terrazzando e ripiantando la banchina con noccioli che avevano ottenuto da talea. L’enorme acacia che soffocava le querce californiane è stata tagliata poco per volta, e ci ha fornito il materiale per costruire il Ramada, la struttura circolare ombrosa costruita dai ragazzi e dai volontari della comunità come luogo d’incontro per iniziare e concludere la lezione di orticoltura. Hanno studiato il modo di abbattere la pesante struttura d’acciaio che segnava la parte superiore della banchina, hanno piantato, tracciato sentieri, costruito ponti, pareti e hanno scavato una profonda cava d’argilla. Abbiamo affidato ai ragazzi asce, picconi, mazze, e palanchini, in modo che potessero andare avanti coi loro lavori, e non c’è mai stato nemmeno un solo incidente serio, in tutte le migliaia di ore in cui i ragazzi hanno lavorato nell’orto”.
In questo spirito David Hawkins ha elaborato insieme a Karen Payne il progetto Transforming violence – che mi fa venire in mente il racconto che arrivò tempo fa a ortidipace da Ponticelli: Statt’accort. Un bellissimo esempio di come l’orto trasforma ragazzi difficili in paladini della natura.
Siamo partiti dall’orto, è vero: l’orto è la base, il luogo in cui ristabilire il rapporto fondamentale con la natura da cui traiamo nutrimento. Ci sono casi, tuttavia, in cui il disagio è talmente profondo, che la via dell’orto può non essere la più facile e nemmeno la più ovvia. In questo caso, per ristabilire una qualche forma di affettuosa dimestichezza con la natura, la cosa migliore è aprirsi a un libero scambio, a un libero gioco, a qualcosa di spontaneo e sorgivo, di meno strutturato di quanto non sia l’orto. Come fanno David e Karen. Ma non solo. Ad Abano Terme, per esempio, ricordo il progetto di Elena Macellari: un bell’orto, ma anche un gigantesco vecchio gelso sdraiato, su cui i bambini potevano arrampicarsi, dove i bambini potevano nascondersi.
Includere la dimensione della selvatichezza in fondo è come inserire l’orto all’interno del suo contesto naturale. Un po’ come nella permacoltura, dove l’idea è coltivare ortaggi e frutta all’interno di un contesto protettivo e salubre dove crescono boschi e piante spontanee, rifugio di creature amiche e fonte di acqua e aria puliti.
Pia Pera