Letture

SALICE E TERRA CRUDA

Godere della terra

I saperi tradizionali, conservazione e fruizione della biodiverisità            

L’ambiente non è solo insieme di rocce, piante, animali e batteri in un determinato territorio. Molti scienziati hanno avuto la fortuna di osservare il delicato stabilirsi di equilibri fra gli organismi viventi e non viventi che porta a formare “il sistema di ecosistemi” o, per dirla con altre parole, “il paesaggio”.
Fra “attori”, oltre il clima, animali, vegetali, c’è anche l’uomo. L’essere umano ha da sempre concorso alla formazione del paesaggio e dei diversi territori, i diversi gradi di antropizzazione favoriscono o inibiscono lo sviluppo di certe specie.
Si parla della scomparsa del lupo o dell’orso in Europa, della tigre in Asia, il bisonte in America o di grandi uccelli terrestri in Nuova Zelanda; ma si parla anche di cereali, legumi, animali domestici, piante orticole e da frutto che hanno fatto il giro del mondo con ogni popolo che migra, e migrando, di generazione in generazione, si porta dietro la sua cultura, la sua cucina… e i suoi ingredienti.
Ci sono alcune specie che sopravvivono solo grazie alla simbiosi con l’uomo (e la sua cultura materiale). Vi sono cereali che fruttificano molto ma se ne fosse interrotta la coltivazione scomparirebbero di fronte alla competizione con le piante selvatiche. Lo stesso può dirsi per le specie animali… avendo selezionato animali “grassi” e poco agili, è poco probabile che una volta liberati riescano a sopravvivere e a riprodursi.

La società tecnologica ha portato questa selezione a livelli molto complessi e, con la ricerca scientifica, la produzione di sementi, piante da innesto ed animali domestici è passata dai contadini ed allevatori nelle mani di poche industrie e corporazioni.
E’ avvenuto un passaggio fondamentale: i contadini in gran parte del mondo sono diventati utenti, clienti di queste ditte produttrici che selezionano semi e li distribuiscono su un territorio vastissimo consigliando concimi e trattamenti chimici per garantirne la salute e la produzione costante.
I contadini stanno perdendo la capacità e la pratica di tramandare e selezionare naturalmente le sementi, riconoscere piante selvatiche e vegetali “utili” e domesticarle, conoscere i materiali del proprio territorio ed utilizzarli per le loro esigenze.
La differenza è evidente: da una parte ci sono molti popoli e molti contadini selezionano naturalmente una grande varietà di semi adattati ad altrettanti ambienti; dall’altra ci sono alcune corporazioni che hanno un vantaggio economico a selezionare in laboratorio una quantità limitata di sementi, piante o animali, brevettarla e diffonderla fin dove le riesce. Se può toglie anche la possibilità di riprodurre questi organismi ai coltivatori come succede nel caso degli ibridi o degli organismi geneticamente modificati in modo che tutti gli anni i contadini non possano riprodurre i semi o tramandarli ma siano costretti a comprarli dalla ditta che ne detiene i “diritti d’autore”.
Questo passaggio, sconosciuto alla maggior parte della popolazione, ha una portata sociale, economica e biologica enorme che comporta la scomparsa del 90% delle varietà selezionate di padre in figlio e adattate al territorio (sementi in grado di produrre anche in climi siccitosi o umidi, animali con diverse attitudini resistenti alle malattie ecc.). L’evoluzione parla chiaro: non si torna indietro, la scomparsa di una specie è un fatto irreversibile.
Uno dei fatti curiosi è che queste “varietà tradizionali” cominciano ora a essere messe letteralmente fuori legge (in quanto non certificate o non presenti nel registro delle sementi) ma dagli anni 60 e 70 semplicemente se ne scoraggiava l’uso proponendo, a prezzi molto bassi e rese molto alte, le nuove varietà.

Se si avesse l’esperienza di un’idea di biodiversità che comprende anche le pratiche dell’uomo, salterebbe subito all’occhio che insieme ai perdersi di alcune pratiche tradizionali, spariscono piante ed animali e viceversa: dopo la scomparsa di piante ed animali “tipici” è molto difficile o quasi impossibile ripristinare il sapere tradizionale.
Il pane di Altamura non ha più la stessa fragranza di 50 anni fa e probabilmente non la ricupererà mai più in quanto è andato scomparendo il grano con cui si faceva… Grani alti, che sono scomodi da raccogliere con i maccchinari odierni, che richiedevano al panificatore una lavorazione particolare in quanto la pasta povera di glutine è più difficile da da lavorare… Insieme a quel pane è andato perso il fornaio in grado di lavorare questa pasta per ricavarne un pane squisito.
La stessa cosa è successa con i cappelli di Montappone. Le marche granaio dell’Impero Romano ha da sempre avuto una forte tradizione cerealicola sulle sue colline. Accanto a questa coltura si è sviluppata la tradizione dei cappelli di paglia oggi quasi perduta… I pochi artigiani rimasti avvisano che non c’è più la “paglia adatta”… La paglia di 40 cm dei grani odierni resa poco resistente dalle concimazioni azotate non può certo sostituire la paglia presente fino agli anni 40 lunga un metro e mezzo, flessibile e resistente. I pochi artigiani rimasti sono poco competitivi con le importazioni di prodotti simili provenienti da tutto il mondo; il loro sapere sull’utilizzazione del materiale locale è  in mano alla gestione di natura pubblica che può attuare un recupero di queste pratiche di natura culturale.

Un esempio visto da vicino: il salice.
Fra le piante non alimentari che hanno accompagnato l’uomo nella storia, un posto di prestigio lo occupa senza dubbio il salice. Pianta dalle mille risorse: lo incontriamo ancora mentre, con le radici, regge le rive dei fossi, nei cesti, nelle gerle, panieri e in altri contenitori, nelle legature delle viti (vero e proprio spago di campagna), nei cassetti delle persone… si nasconde all’interno dell’ “aspirina” con un estratto della corteccia a base di acido salicidico.

Anche in questo caso, la scomparsa di certe attività va di pari passo con la scomparsa si alcune materie prime “pregiate” che ne pregiudicano la qualità per sempre. In natura il salice è una pianta non longeva (vive in media dagli 8 ai 25 anni circa) e si ibrida molto facilmente. Infatti esistono moltissime varietà di salice (attualmente sono state catalogate 300 varietà nella sola Inghilterra) ogni varietà ha delle caratteristiche peculiari: resistenza del legno, flessibilità, lunghezza del ramo, un diametro più o meno costante, colore ecc.
Molte di queste varietà sono state scelte da una popolazione (direi quasi a loro immagine e somiglianza) alcune di queste qualità e sono state “domesticate” cioè potate regolarmente e/o trapiantate nel proprio giardino per talea cioè un ramo potato in inverno e piantato a terra. Il salice ha sorprendenti capacità di radicamento e produce una pianta geneticamente identica a quella madre. Queste piante, spesso sono state tramandate, regalate e scambiate, “abituandosi alla mano dell’uomo”: per produrre un buon materiale necessitano potatura annuale.
In val D’Enza gli anziani dicono “non  c’è più il vimini buono” nel senso che alcune piante potate lungo il fiume, non essendo potate sono cresciute, sono state rovinate dalle piene e inoltre essendo stata abbandonata la coltivazione e il trapianto le nuove piante nate spontaneamente si sono ibridate con piante meno flessibili e resistenti…
A volte, quando si guardano due cesti provenienti da due località diverse, pur utilizzando un materiale simile, si può notare subito che le tecniche, le trame, il modo di accostare i colori e l’estetica di questi manufatti è diversa…  non ci vuole molto a rendersi conto che il cesto che si ha fra le mani rispecchia le caratteristiche della persona che l’ha prodotto e porta in sé i le peculiarità “della sua gente”, della sua comunità.
Ogni comune potrebbe svolgere una semplice quanto ricca ricerca nel proprio territorio: con l’aiuto di studenti di agronomia o scienze forestali; si tratta di andare a scoprire i salici e le piante adatte sul territorio, a casa degli anziani o quelle presenti  in natura; catalogarle, fotografarle e prendere alcune talee per avviare una coltivazione in una zona umida (vicinanze di un fiume o altro) dove possono essere utilizzati ogni anno.
Inoltre chi “maneggia” frequentemente questa pianta può scoprire altri impieghi straordinari: ripristini ambientali per prevenire frane, fitodepurazioni delle acque nere e grigie, la creazione di spazi di ombra nel verde urbano, sostegno degli argini dei fossi o fiumi (se posizionati a dovere costano meno di ruspe e cemento armato sia in termini economici  che ecologici).
Mi pare importante prima di tutto “fare cultura” intorno a questi saperi; non solo pubblicazioni e ricerche che rimangono chiuse nelle università ma anche un tipo di diffusione accessibile di cui molti possano avvantaggiarsi.

La speranza catalana
Un buon esempio ci viene dalla Catalogna dove si è costituita un’associazione fra cestai che  ha raccolto e catalogato i cesti tradizionali, ne sono usciti una pubblicazione ricca ma accessibile a un vasto pubblico, e un poster che raccoglie in un colpo d’occhio le tipicità dei manufatti e i materiali. Tutti gli anni, con l’aiuto delle amministrazioni, si svolge a Salt, all’interno di una festa tradizionale, “la fira del cistel” dove è presente la sola cesteria tipica con inviti da tutt’Europa. Inoltre sono stati avviati corsi di cesteria ed intreccio, che hanno portato come risultato più bello il cambiamento di percezione da parte delle persone che hanno dichiarato “Ora che conosco il lavoro e la fatica che c’è dietro, Mai più dirò che un pezzo di cesteria è cara”. Ora si è creato anche un “mercato consapevole” dove si conoscono questi cestai locali, la provenienza locale dei materiali ed il prezzo percepito come “adeguato”, tenendo conto che un buon cesto può durare 50 anni o più e “invecchiano bene” a differenza dei manufatti con materiali sinetici.
Questi sono modi in cui gli oggetti dell’artigianato possono uscire dall’anonimato del prezzo e delle importazioni a grandi distanze, possono ricominciare a parlare e dirci qualcosa sull’ambiente da cui provengono e delle mani che li hanno fatti.

La terra cruda… starà su?
Un altro materiale di cui si stavano perdendo le tracce è la terra cruda. Nonostante ci siano ancora case di terra cruda in Italia con più di 300 anni, nonostante i 2 terzi della popolazione mondiale viva in case di terra, oggi l’utilizzo di questo materiale incontra incredulità e soprattutto moltissimi ostacoli di tipo legislativo. L’Italia è l’unico paese al mondo in cui non si possono costruire nuove case di terra autoportante, essa può essere utilizzata come tamponamento o come intonaco…Eppure ci siano esempi eccellenti come lo Yemen (nove piani con struttura in terra cruda autoportante), ci sono centri universitari che affermano la terra è uno dei materiali più isolanti da un punto di vista termico, acustico e un buon regolatore dell’umidità… ed inutile dirlo, per chi la sa lavorare allo stato grezzo, è praticamente gratis.
Ovviamente ogni terra è diversa (in 2 km possono essere presenti anche 5 tipi di terra completamente differenti). Ogni terra è adatta per fare alcune cose e non altre… infatti, in ogni zona dove era in voga questa pratica, si conoscevano perfettamente i punti dove cavarla e come utilizzarla… quanto ci vorrà a recuperare tale sapere se non è stato tramandato?

La calce cotta a legna
Quello della calce poi è un altro esempio eclatante…Quando racconto che con la calce “buona” si possono costruire case, murare pietre, pitturare interni ed esterni ecc. mi trovo davanti agli sguardi perplessi dei muratori, magazzinieri ed artigiani odierni… In effetti in Italia ci sono ancora circa una ventina di fornaci che producono calce cotta più o meno come si è sempre fatto… un sasso di calcare del territorio cotto 3 giorni e 3 notti… Ci si può costruire una casa dalle fondamenta alla pittura con un costo molto accessibile (circa 3 o 4€ per sacco da 25 kg) per un legante che non contiene scarti inquinanti o prodotti di sintesi e che ha ottime proprietà battericide, sismiche, termiche e traspiranti quindi di resistenza all’umidità,.
Quando, per rinforzare la mia affermazione, dico che  ci costruivano fin dal tempo dei Romani e che molti di quegli edifici sono ancora in piedi, gli sguardi non cambiano di molto. Strano perché in Italia siamo sommersi da opere architettoniche (chiese, ville, cascine, case, templi) antecedenti il 1950-1960 quindi, sicuramente realizzate a calce… L’evidenza di questa verità in un paese come il nostro dovrebbe palesarsi da sè…
Il cemento è sulla scena da soli 60 anni, è stato venduto come un materiale duraturo pur basandosi solo su previsioni… presenta molti svantaggi rispetto alla calce: si disgrega con i sali portati dall’umidità, ha un basso isolamento termico e acustico, rigidità e quindi scarsa resistenza in caso di terremoto e in molti, fra artigiani e studiosi, dicono che la sua durata non va oltre i 70 anni; ha un pregio però: è pratico e veloce, indurisce molto in poche ore.
In poco tempo ha soppiantato la calce fino a cancellarne il ricordo e la capacità di utilizzo nel 95% dei muratori del centro-nord Italia… Inoltre insieme alle piccole fornaci sono andati persi gli artigiani che erano capaci di riconoscere e cuocere i sassi locali per ricavare questo legante a vantaggio di una produzione accentrata con grandi cementifici con un impatto ambientale spesso spaventoso. La commercializzazione della calce invece è stata salvata dal fatto che si utilizza nelle stalle e negli allevamenti per sterilizzare; la stessa che può essere utilizzata per la costruzione… Dobbiamo agli allevatori, allo sterco delle galline e cavalli il fatto che si produca e si venda ancora questa primizia nella sua forma pura, un materiale edile fra i più nobili esistenti al mondo dal tempo dei Romani… anche se in gran parte, oggi, finisce tra gli escrementi.

La pratica val più della grammatica… e della verità
Mi pare sia giunto il momento di analizzare il meccanismo fra apprendimento e trasmissione del sapere… un insieme di fattori psicologici e antropologici che credo siano il nocciolo della questione: la pratica, la consuetudine e l’abitudine contribuiscono molto di più a considerare vero un fatto piuttosto che la verità di ragione, i sillogismi e la conoscenza teorica.
Il non utilizzo della calce idrata o altri materiali per una generazione è bastato per cancellarne l’abilità pratica, la credibilità e la conoscenza delle sue fantastiche potenzialità trasversalmente dall’architetto al muratore passando per l’ingegnere.
Anche per quel che riguarda l’agricoltura Daniele Zavalloni rileva: “La mentalità contadina è essenzialmente conservatrice: per garantire la sopravvivenza si basa sulla ripetizione, sulla consuetudine, sull’approvazione convenzionale. L’innovazione nella storia è sempre stata difficilissima, anche di fronte all’evidenza: fino a 40 anni fa “tutti” gli agricoltori erano biologici, ora, in genere, se parli ad una persona che pratica agricoltura chimica, a lui sembra inconcepibile che si possa produrre frutta e verdura senza veleni.”
La resistenza a constatare l’efficienza di metodi tradizionali o naturali (che oggi appaiono nuovi e fantasiosi) va di pari passo con una sorta di accettazione quasi incondizionata delle “verità della tecnologia” nonostante le cantonate evidenti della tecnologia dall’ethernit, agli o.g.m.
Tale “venerazione” aumenta tanto più si diventa sottilmente ed inesorabilmente dipendenti da essa. Il pensiero dominante è che il benessere e la conoscenza siano a senso unico, che oggi si è più progrediti di un tempo e un domani lo si sarà più di oggi… mentre nella storia evoluzioni e involuzioni appaiono più cicliche che lineari…

Estinzione del sapere?
Questo è uno dei paradossi più grandi della nostra epoca. Dove la tecnologia industriale si diffonde si diffonde anche l’ignoranza rispetto alla terra, ai processi biologici, ai materiali e a come utilizzarli. Nella storia, si sono verificate molte situazioni di sfruttamento insostenibile del territorio, ma nulla di paragonabile a quello che sta accadendo negli ultimi 60 anni. Molte popolazioni, avevano succhiato il senso del limite con il latte materno e sapevano del compromesso vitale esistente fra il soddisfacimento dei loro bisogni e i tempi e gli equilibri della natura.
Quanto ci vorrà a recuperare un sapere che ci permetta di “godere” della terra senza distruggerla se non è stato tramandato? Quanti e quali sono gli accorgimenti, le osservazioni cumulate in migliaia di anni? Quanto tempo richiede una sperimentazione che riparte da capo?
“Chi lascia la strada vecchia per la nuova…” Credo che il messaggio profondo di questo proverbio non sia quello di essere acriticamente conservatori, retrogradi… Sarebbe da “invasati” rinnegare i vantaggi e i miglioramenti che ha portato e porta la tecnologia. Semplicemente invita a valutare con “occhio lungo”, a conservare la memoria e non farsi prendere da facili entusiasmi per le “novità”.
“Se ho potuto vedere così lontano è perché sono potuto salire sulle spalle dei giganti” diceva Galileo… Sembra che la società d’oggi stia scendendo completamente dalle spalle degli antenati e del sapere umano senza troppo curarsene, senza fermarsi a riflettere, per salire su quelle di un’enorme robot, una tecnologia che potrebbe rivelarsi per molti aspetti un altro Titanic.

Accanto all’oblio tecnologico e genetico ci sono alcuni sforzi che vanno nella direzione della conservazione biologica, da due secoli si sono istituiti in tutto il mondo Parchi ed aree protette.
E’ doveroso creare dei i serbatoi di biodiversità, ma scomparendo l’attività dell’uomo che era compatibile con essa, oggi potremmo avere i centri Vavilof pieni di tutti i tesori di varietà geologica, vegetale o animale.. e di fronte a queste “collezioni intatte” non sapere “cosa farne” come utilizzarli, come fruirne o goderne.
Per questo vedo importante ed urgente la conservazione e la ricerca su quei saperi artigianali, agricoli che sono connessi con l’ambiente che li ha generati in modo che le popolazioni locali si sentano parte attiva della conservazione. Per fare questo, invece di impiegare energie in tanti convegni o nella propaganda di verità di ragione, vedo nella pratica la strada migliore per ridiffondere la conoscenza per poter apprezzare l’utilizzo di queste materie prime vive e vitali attraverso corsi pratici, cantieri partecipati, stage gratuiti in cambio di manodopera ecc. Da un antico proverbio cinese: “Ascolto e dimentico, vedo e ricordo, faccio e capisco”.
“Quando intreccio un cesto di salice posso immaginare le radici fitte di quei rami che in questo momento stanno reggendo la riva di un fosso, vedo i polloni nuovi che colorano come una fiamma rossa o gialla l’inverno monocromo, vedo la civetta che fa il nido sulla cima capitozzata, il tronco vecchio e cavo che ospita l’upupa o qualche roditore… vedo lo stagno e sento il gracidare della rana che gracida … e penso che sia bello che ci sia ancora tutto ciò.”
                                                                                        Andrea Magnolini