Letture

RICORDI DALL'ORTO DI SCUOLA

Questo ricordo è dedicato alla mia maestra elementare. Era una donna piuttosto corpulenta, bruna, i capelli tirati indietro e fermati in un severo chignon. Portava sempre camicette bianche e profumava di lavanda. La “signora maestra”. Erano tempi in cui gli insegnanti non si facevano dare del tu dai bambini né si facevano chiamare per nome. Il primo giorno di scuola la maestra entrò in classe con la sua camicetta candida e disse alle bambine: “Io sono la vostra maestra. Mi chiamo Angela Delbò. Non sono sposata per cui sono signorina. Ma per voi devo essere la signora maestra”. E così fu. Nessuna si sognò mai di chiamarla Angela o signorina. E le davamo del lei.

Questa salutare distanza non impediva alla signora maestra di essere materna e affettuosa, attenta alle nostre difficoltà, ai nostri raffreddori, alle nostre ginocchia sbucciate. La scuola si trovava alla periferia sud di Milano, una periferia ancora piena di orti, cascine, vivai di floricultori. Alcune vie si perdevano fra le officine alternate a grandi siepi di sambuco, i cui fiori bianchi a maggio emanavano un odore intenso.

 

L’edificio, del primo Novecento, era un po’ tetro fuori, ma pulito e luminoso all’interno. Le aule guardavano su vasti cortili alberati di ippocastani: in primavera sbirciavo dalle finestre le  “candeline” dei fiori,  d’ottobre, quando la scuola ricominciava, raccoglievamo le lucide castagne perché la bidella diceva che a portarle in tasca tenevano lontano il raffreddore.

 

Ricordo un momento magico, in quella scuola di anni lontani. Il giorno (di febbraio? di marzo?) in cui la signora maestra portò a scuola un bulbo di giacinto. Lo mise nel vasetto apposito e ci spiegò che cos’era, com’era fatto, come sarebbe fiorito. Giorno dopo giorno spiavamo quel bulbo, finché una mattina la pannocchietta chiusa sbocciò e i campanellini rosa riempirono di profumo l’aula. Era primavera e tutte festeggiammo il giacinto rosa. Poi la signora maestra ci disse di prendere le matite colorate e di disegnarlo. Ho ancora quel quaderno e quel disegno.

 

In quegli anni non si parlava ancora di ambientalismo e di ecologia. Quindi non so se la nostra scuola milanese di via Polesine fosse ecologista o meno, ma so che aveva un orto suddiviso in tante aiuole rettangolari. Ad ogni classe era assegnata un’aiuola da coltivare. Noi la chiamavamo, non so perché, la “proda”. Il custode della scuola (che suppongo avesse lì anche la sua abitazione) zappettava la proda e sminuzzava la terra. Noi uscivamo di classe nei primi giorni in cui il freddo scemava, con la nostra signora maestra e i sacchettini di semi. Seminavamo le viole del pensiero, i rapanelli, la cicorietta. Ogni giorno a turno innaffiavamo. La  maestra frenava la nostra impazienza, spiegandoci che la natura ha i suoi tempi e che bisognava imparare ad aspettare.

 

Ma che gioia in quei giorni di maggio-giugno già caldi, quando finalmente si raccoglieva quanto avevamo seminato. Si tagliavano le viole e la cicoria, si estraevano i rapanelli. Ne facevamo tanti mazzetti e la signora maestra li metteva in vendita. Dieci lire ogni mazzetto. Orgogliosissima portavo a casa il mio mazzetto di cicoria avvolto nella carta di giornale ed esigevo che mia madre subito lo mondasse, lo lavasse e lo mettesse in tavola. Aveva un sapore squisito. E le viole del pensiero mandavano un meraviglioso profumo.

 

Il poco denaro ricavato dalla vendita dei prodotti del nostro orto forse era destinato a riacquistare altre sementi. Non l’ho mai saputo con certezza ma ritengo che quel simbolico prezzo servisse piuttosto a conferire loro maggior valore. Così non li avremmo buttati in un angolo ma considerati con attenzione.

 

Io credo che l’amore che porto al manifestarsi della natura sia dovuto in gran parte a quella esperienza infantile, a quelle ore trascorse china su quel quadratino di terra che prodigiosamente si copriva di fiori e di foglie, mentre i vecchi ippocastani anno dopo anno a ogni primavera rinverdivano. Ancora oggi, appena le giornate si allungano, vado a comprare un bulbo di giacinTo. E aspetto che fiorisca. E spero che sia rosa. E quando sboccia e ne risento il profumo, rivivo la grande aula, i i finestroni schermati dalle tende di canapa un po’ polverose, le strisce di sole sul pavimento. E quella lontana felicità.

 

 

Domizia Carafoli