Letture

ORTI GEORGIANI

Orti georgiani
NELLA PIANA E SUI MONTI
di Ezio Menzione
(fine agosto 2010)

La cosiddetta Strada Militare che, tutta poggi e buche, dal ‘700 valica il Caucaso congiungendo Russia e Georgia è ormai allo stremo e avrebbe bisogno di essere risistemata e asfaltata, ma fra un sobbalzo e l’altro è più facile immaginare di essere Puškin o Lermontov o Tolstoij o MajakovskiJ, che nelle varie epoche già la percorsero.
Si comincia a salire decisamente dopo avere lasciato le due chiesette di Ananuri che si affacciano su un lago, cinte da un’unica muraglia. La sindrome di avamposto della cristianità assediata dagli infedeli si rivela ad ogni passo, in Georgia.
Superato un valico dove alcuni brutti residence per il turismo invernale lasciano intendere cosa potranno essere questi luoghi fra non molti anni, si arriva al sonnolento villaggio di Stepantsminda, lungo il fiume. Qui ciò che domina è il monte Kazbegi che, superando i 5000, è il più alto di questa parte dell’enorme catena del Caucaso. A piedi, a cavallo o con una vecchia 4×4 si sale alla chiesa (di nuovo, cinta da mura) della Trinità (Tsminda Sameba), isolata, inerpicata, su un cucuzzolo a 2200 metri si staglia contro la grande montagna che la sovrasta.
I monaci stanno riparando il tetto della cupola conica con lastre nuove di rame, che mandano bagliori in quest’aria rarefatta. Fra due giorni, ci spiegano, deve essere tutto pronto per la visita del Patriarca, che dalla capitale verrà fin quassù per la festa dell’Assunta.
Si entra nella cinta muraria da una porta avvoltata e nella piccola spianata che circonda la chiesetta, lì, sulla destra, quel paesaggio austero si ingentilisce all’improvviso con una distesa di fiordalisi: sono azzurri, rosa e viola e punteggiati di papaveri. Fiori ormai inusuali e quasi scomparsi, qui da noi, ma che evidentemente a quell’altitudine prosperano bene e i loro colori brillano come gemme in un bracciale sotto il sole terso di quelle altezze.
Dall’altro lato della chiesetta, dove il pope e alcuni giovani diaconi stanno armeggiando con fogli di rame e travetti di legno, nella terra smossa sono stati piantati cavoli azzurri a formare una devota croce, contornata di piccoli tagete arancione.
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Si traversa la vasta e lunga piana georgiana che, col suo caratteristico clima subtropicale, costituiva “l’orto dell’Unione Sovietica”, capace un tempo di rifornire di frutta e verdure l’impero dei Romanov e poi, per quasi 70 anni, le repubbliche sovietiche.
Oggi, dopo le tribolazioni seguite all’indipendenza e i due anni di guerra, la campagna si va riprendendo. Si ha l’impressione di un’agricoltura non ancora (o non più?) industrializzata, almeno muovendosi lungo l’unica autostrada o le vie nazionali. Piuttosto una miriade di campi, frutteti ed orti annessi ciascuno a case, più o meno belle, più o meno antiche, quasi sempre ornate di trafori in legno che schermano il sole sulle verande; sostanzialmente uguali nella struttura: il piano terra a uso agricolo, il primo piano, cui si accede da una scala esterna, per abitare. Può essere più o meno vasta, ma lo schema rimane lo stesso, finanche per i pastori delle regioni più alte.
E ogni casa ha di fronte una pergola d’uva che dal cancello porta all’abitazione e questa pergola, oltre ad ombreggiare, se non è proprio un’allée, comunque conferisce alla casa dignità e decoro e scandisce in due parti simmetriche il terreno: da un lato orto e frutteto, dall’altro vite e mais e altre granaglie. In sostanza, il mangiare e il bere per un anno sono assicurati.
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Dalla piana si sale, prima poco a poco, poi sempre più decisamente, risalendo il fiume Uiguri, verso il cuore dello Svaneti: regione montana fieramente georgiana, incastrata fra l’Abkhazia e l’Ossezia del sud, ormai così poco georgiane (almeno politicamente). A volte si procede all’altezza del fiume tumultuoso, poco dopo il fiume è laggiù in fondo, a diverse centinaia di metri.
La strada non ha guard rail finché è strada, figuriamoci quando smette di esserlo e si fa traccia sfossicata e franante, con gorgoglianti e sassosi ruscelli da guadare. Peggio per voi se soffrite di vertigini.
Dopo tre ore di strada e quattro di non-strada si arriva a Mestia, la capitale della regione: un villaggione di montagna. Pastorizia fino a ieri e frutti della terra oggi, in attesa che anche la non-strada diventi strada. Due alberghetti lasciano intendere la volontà turistica per il futuro. E ancor più lo dicono chiaramente le costruzioni che si vanno tirando su: si costruisce quanto a Courmayeur nei primi anni ’60, nota un mio amico valdostano. Niente di male, anzi, se non fosse che le nuove costruzioni fanno a pugni con tutto ciò che vi è dintorno, agreste e intatto fra le due altissime cime dello Ushba e del Tetnuldi, perennemente bianche di ghiacciai e nevai. Anche il nuovo bunker del museo costruito coi soldi americani è tanto orribile fuori quanto sono meravigliosi i tesori che custodisce: da epoca remota, ad ogni invasione della Georgia (e nei secoli ce ne sono state un’infinità) dalla piana si portavano qui icone, codici, ori e argenti perché fin qui gli invasori non sarebbero saliti. Passato il pericolo, si tornava a riprenderseli. Ma, nel corso dei secoli, qualcosa è rimasto quassù e si è conservato.
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Ancora quattro ore di macchina per fare 140 Km. di non-strada lungo lo stesso fiume Inguri e cominci a vedere i tipici villaggi con case di pietra affiancate da torri difensive, man mano che dai 1500 metri di Mestia arrivi ai 2400 della vallata di Ushguli, chiusa dal vasto e poderoso massiccio dello Shkara, sempre innevato. Qui i piccoli villaggi con le loro alte torri di pietra sono rimasti intatti. Non ci sono alberghi, né bar, né negozi: uno spaccio è stato recentemente aperto con una ricca sovvenzione statale, ma dentro non c’è niente da comprare. Dunque, si mangia e si dorme in casa dei pastori, dove la padrona allestirà pasti niente male con quel che le forniscono i suoi animali e il suo orto.
Capitiamo nell’ultima casa dell’ultimo villaggio  della più remota vallata georgiana. Più in là, dopo un’antica chiesetta circondata da un muretto e guardata anch’essa da una torre difensiva, ci sta solo la sorgente dell’Uiguri  (la foce è sul Mar Nero: quanti kilometri e quanta civiltà di distanza!), il ghiacciaio e il confine con la Russia.
La nostra padrona, Leila, si arrangia con il latte delle sue mucche e delle sue capre che il figlio, ancora un ragazzo, porta al pascolo, anzi, lascia libere andando a riprenderle al tramonto, e con quel che gli da l’orto, non piccolo, attorno casa.
La stagione per seminare e raccogliere è molto breve, ma non manca quasi nulla, compreso un fazzoletto coltivato a grano e uno a granturco: E poi qualche melanzana, molti cetrioli, prezzemolo e silandro, fagioli, qualche fiorellino e, in una rudimentale serra di canne e foglio di plastica, pregiatissimi pomodori. Siamo a fine agosto e fra poche settimane le piogge e poi la prima neve azzereranno tutto fino al prossimo anno.
Ma lungo le pendici dei monti, qui e là, dove il terreno non è troppo ripido, si delimita anche un rettangolo, un campo scosceso per crescere un po’ più di granturco o un po’ di sulla per le mucche. Ma, anche lì, bisogna fare in fretta, perché il freddo e l’inverno incombono e presto la neve coprirà crochi e genziane che oggi rallegrano la vista.