Orti condivisi e terapeutici

L'ORTO DEGLI INVISIBILI

Siamo alla periferia di Rieti. Fernanda, che viene dal Brasile e sta fotografando esperienze italiane di orti di vario tipo; Eleonora, che è la guida-interprete-amica-agronoma che l’accompagna ed io, che ho proposto la visita ad un orto particolare.

Particolare non per le pratiche di coltivazione, anzi quelle sono assolutamente tradizionali: zappa, vanga, concime biologico e diserbo manuale. La particolarità di quest’orto consiste nell’ubicazione e, soprattutto, nei suoi curatori: giovani uomini e donne arrivati dal mare e richiedenti asilo, alias:  clandestini. La storia è lunga, ma abbastanza simile ad altre  sentite tante volte. A parte il finale, però. Sì, perché non a tutti è capitato d’incontrare un Antonio che quando dice “cittadinanza attiva” intende proprio la capacità di attivarsi per chi non gode dei diritti spettanti a tutti.
Antonio otto anni fa ha comprato un casale. Uno di quei casali che fanno parte del paesaggio come fossero querce secolari, ma che ormai, come spesso avviene anche alle querce secolari,  quasi nessuno cura più di tanto. E’ una costruzione del 1300, cioè ha circa settecento anni e deve aver svolto bene la sua funzione nel corso dei secoli, tanto che verso il 1930 le hanno costruito accanto un grosso fienile.
Quando edificarono il casale non esisteva la ferrovia e, ovviamente, neanche la superstrada. Figuriamoci se poteva esserci il viadotto dell’autostrada![1] Ora invece c’è tutto questo, e così il casale è diventato “invisibile”. Per arrivarci bisogna proprio sapere dov’è. E infatti per Fernanda, Eleonora e me, che guidavo l’automobile, rintracciarlo è stata una vera caccia al tesoro: percorrere la superstrada Rieti – Terni  ed imboccare un vicolo in terra battuta segnalato da un cartellino per detective dallo sguardo aquilino, scritto a mano con Bic a punta sottile e posto a circa 80 cm dall’inizio del vicolo stesso. Poi, una volta superata questa prima prova di abilità, percorrere il vicolo per qualche decina di metri e fermare la macchina sull’erba facendo attenzione al dirupo da una parte ed al binario incustodito dall’altra. Attraversare il binario con cura guardando oltre l’erba alta, sia verso destra che verso sinistra per assicurarsi che non arrivi il treno, e infine passare sotto le opprimenti arcate della sopraelevata autostradale.
Lì comincia la dimostrazione che Antonio  dà al mondo: il paradiso si può assaporare anche sotto un mostro di cemento, ed un gioiello del 1300 destinato all’abbandono può diventare un bellissimo casale “invisibile”,  la sua terra può tornare a produrre diventando un orto “invisibile”,  uomini e donne senza documenti che li rendano giuridicamente visibili possono coltivare (come sanno, senza grandi tecniche, per ora) zucchine, insalata e pomodori e aspettare che prefetture, consolati, ambasciate e amministrazioni varie esaminino le richieste di chi, in una lingua non sua, cerca di spiegare la propria condizione di rifugiato politico o di chi chiede asilo per fuggire dalla disumanità della fame, dei massacri e delle guerre combattute con armi che hanno l’unico, ma immenso pregio, di far crescere il pil dei paesi fornitori.
Antonio è fiero del suo casale. Un casale che nascosto com’è ha perfino la faccia tosta d’avere un numero civico! In più ha l’orto, ed anche di questo Antonio è fiero. Ad essere franchi bisogna dire che di orti lui se ne intende poco, ma è giustamente fiero di aver affidato il suo terreno, facendone un vero “orto di pace e di speranza” nelle mani di Nuguse, eritreo di 24 anni; Saba, madre di due figli affidati ai suoi parenti e con un marito ancora in un carcere eritreo  per motivi politici; Alì, somalo di 30 anni, sfuggito alla morte in Somalia, in Sudan, in Libia e infine sbarcato sulle coste italiane, come Amanuel e Samiel e Aleen, Solomon. Loro sono gli affidatari più assidui, ma spesso sono aiutati da altri amici somali ed eritrei con cui hanno condiviso il terrore, le torture, il carcere, le fughe e infine la speranza.
Quando Fernanda, Eleonora ed io arriviamo al casale invisibile c’è un certo movimento. Antonio è ancora impegnato a tagliare l’erba alta col decespugliatore; Giorgia sta sistemando i tavoli; Pablo deve andare a prendere il telo perché dopo cena si proietterà “Come un uomo sulla terra”; ognuno ha ancora qualcosa da sistemare, ma i  ragazzi africani che dovrebbero raccontare la propria storia a Fernanda sono andati a prepararsi per la festa e ancora non tornano. Non sanno che Fernanda ed Eleonora hanno i minuti contati, che le aspetta il treno per andare a Cassino dove hanno un altro appuntamento per documentare la realizzazione di un orto scolastico. Mentre i minuti passano stiamo tutt’e tre sui carboni e intanto Antonio ci mostra la grande produzione di zucchine e ci racconta di quanto erano felici i ragazzi quando hanno tagliato le prime piante di lattuga. Ci mostra le foto dei lavori e spiega che tutto è cominciato solo a fine marzo quando, col sostegno di Arci e Cittadinanzattiva, uomini e donne di buona volontà (ed io vorrei aggiungere di grande tenacia e alti ideali) sono riusciti a superare le panie burocratiche e a salvare da un rimpatrio forzato molte decine di rifugiati riuscendo a far avere loro lo status richiesto, cioè quello di rifugiati per motivi umanitari e di rifugiati per accoglimento di richiesta di asilo politico. E’ stato allora che lui ha dato vita a questa idea di orto solidale che pian piano si sta strutturando producendo zucchine e allegria, pomodori e speranza, insalata e amicizia. Ci dice pure che parlando con Amanuel, Saba ed alcuni altri, aveva pensato fosse opportuno avere una produzione autonoma  di uova e così ha lanciato una sottoscrizione per l’acquisto delle galline. Sei persone si sono fatte socie ideali del suo progetto “sottoscrivendo” ciascuna una gallina. Ed ora, gli amici che hanno dei bambini piccoli, potranno usufruire delle uova fresche del casale invisibile.  
Fernanda intanto fa qualche foto a quest’orto giovane, oggettivamente un po’ arrangiato, ma che sprizza lo stesso entusiasmo di chi l’ha progettato. Il treno parte alle 18,14 dalla stazione di Rieti. Ormai sono le 17,50, i ragazzi non arrivano, Eleonora e Fernanda non possono più aspettare, Elisa le accompagna al treno. Io aspetterò l’arrivo di questi giovani immigrati, li intervisterò, chiederò loro se posso fotografarli e se posso raccontare le loro storie. E’ quello che ora sto facendo. Finalmente verso le 19 cominciano ad arrivare. La prima è Saba e sarà lei la capo-cuoca. L’orto ha prodotto tante zucchine, e queste, insieme allo “zichinì” e al pane eritreo saranno il piatto forte della serata. Ci sarà anche la cococciata sabina preparata da Valeria: sublime. Qualcuno addentando la terza porzione l’ha definita un “piatto da sballo”. Data la produzione si potrà sballare per diverse sere! Sono tutti allegri, fanno a gara a farsi fotografare chi coi fiori di zucca, chi mentre mostra le zucchine raccolte, chi mentre aiuta Saba a cucinarle.
Chiedo a Saba se vuole raccontarmi com’ è arrivata, ma lei non parla italiano e poi, quando neanche l’inglese (che io peraltro mastico poco) la sostiene, capisco che preferisce non entrare nei particolari. Mi spiega che in Eritrea è stata arrestata con suo marito e poi è riuscita a fuggire in Sudan vivendo nella disperazione dei campi profughi. Da qui è andata in
Libia dove è stata nuovamente arrestata e quindi scarcerata dietro pagamento. Così vengo a sapere che in Libia si esce dalla galera pagando l’equivalente di 150 euro alle guardie carcerarie, le quali spartiscono parte della cifra con altri personaggi in divisa, che vanno a caccia di immigrati irregolari per ripetere il “gioco” finché è possibile. Dai non detti di Saba capisco cosa subisce una donna arrestata, oltre al pagamento del riscatto alla delinquenza in divisa, ma purtroppo questo pur indignandoci non ci stupisce. Parlo con gli altri ragazzi e scopro che sia Alì che viene dalla Somalia, che Nuguse, Samiel, Amanuel, Solomon ed Aleen che vengono dall’Eritrea, sono passati per i campi profughi del Sudan e da lì sono finiti in Libia dove hanno conosciuto, tutti, l’esperienza della galera.
La cosa che mi fa grande impressione è vedere con quanta rapidità le loro espressioni cambiano e come i loro occhi si illuminano quando chiedo loro di parlarmi di questa esperienza nell’orto invisibile. Pur se abbiamo il grosso problema della lingua, quel che mi sembra di capire è che per loro tirar fuori del cibo dalla terra è come sentirsi parte di questa terra. E’ una specie di cittadinanza virtuale acquisita sul “campo” in senso proprio.
Ho proposto ad Antonio di seguire e di far seguire ai ragazzi dei corsi di permacultura o di agricoltura biologica e lui mi ha confessato  che qualche “esperto” gli avrebbe detto che è troppo vicino alla ferrovia per poter avere un orto biologico.  Ma pensate che potere hanno gli “esperti”: un campione dei diritti umani, uno che riesce a restituire il sorriso a uomini e donne disperati; uno che riesce a far vincere il bello e l’allegria sulla bruttura e la pesantezza di un’arcata di cemento, viene fermato da un “esperto”, come se la certificazione di biologico fosse l’unico modo per portare avanti una coltura biologica!  Come se, visto che tanto lì vicino ci passa un binario di treno, tanto vale aggiungere i pesticidi! Ma tre secondi dopo questa riflessione Antonio già mi diceva che sarebbe molto bello se io (appassionata di erbe selvatiche) facessi qualche incontro conoscitivo al casale invisibile e, cosa più importante, se si potesse organizzare un corso per insegnare almeno i fondamenti della permacultura.
Cara  Fernanda, a questo punto immagino di averti davanti e di poterti dire che se un giorno ripasserai dalle nostre parti verrai chiamata per una consulenza in questa comunità, nata dai principi della “cittadinanza” attiva e che, dopo aver messo le mani nella terra, ha cominciato ad acquisire quelli propri di una “contadinanza” attiva[2]. E’ la dimostrazione che quando società civile e natura lavorano in sintonia il miracolo si avvera, così come il campo di Antonio e dei suoi amici, da terra incolta s’è trasformato in “orto di pace”, nonostante superstrada, ferrovia e ostacoli legislativi più grigi e pesanti dell’arcata di cemento che lo sovrasta.
Patrizia Cecconi

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[1] Le foto allegate danno un’idea della situazione

[2] Questo termine è suggerito da G. Zavalloni e porta con sé il giusto tentativo d’invertire la tendenza a considerare di serie B il lavoro legato alla terra.