Letture

IL VIGNETO, AL SUO PRIMO SBADIGLIO

Viene decretata in questi giorni l’apertura della nuova stagione della vite. Se una rondine non fa primavera, l’apparire improvviso di tanti anziani contadini coriacei nelle loro vigne ne è invece solidissima garanzia.


Sono tutti alle prese con i lunghi “cavi”, cioè i tralci, che hanno lasciato a seccare durante l’inverno e ora potano lasciandone due, uno più lungo che dovrà dare i frutti quest’estate e uno più corto che diventerà il cavo lungo l’anno venturo. Tagliano con sapienza, scegliendo i tralci “giusti” e contandone gli “occhi”, cioè le gemme, due o tre devono essere lasciate per il cavo corto, sei o sette per l’altro.
Dopo la potatura è la volta della prima “legatura”, cioè fissare i cavi ai fili del filare.
Le mie vicine di casa fuggono come la peste il momento di legare la vite, un lavoro tradizionalmente affidato alle donne, perché considerato più leggero. Niente affatto, “legare” non solo è faticoso perché ti costringe per giorni china sui tralci appena accorciati, spezzandoti la schiena, ma anche perché i contadini (leggi: mariti o padri) più esigenti, non vogliono che la vite – pianta nobile di cui sotto sotto sono innamorati – sia legata con rafia o altri cordami da poco. Per fare una cosa all’altezza di sua altezza la vite, si deve usare il ramo di un cespuglio, flessuoso ma scabro, fatto crescere appositamente al limitare delle vigne, la lentaggine (Viburnum Tinus).
La lentaggine taglia le mani e gonfia i polsi, tanta è la forza (e la delicatezza) che ci vuole per piegarla intorno alla vite.
Una brava “legatrice” impiega un tipo di nodo che si riesce a sciogliere con un solo leggero strattone al tralcio, così facendo il laccio cadrà a terra ma non dovrà essere raccolto – risparmiando un ulteriore pesante lavoro – perché essendo naturale, non comprometterà la qualità della composizione del terreno della vigna. In questo consiste la sola vera comodità dell’uso antico della lentiggine, parola di contadina.
La terra non si vanga, fa ancora freddo, lo si farà più in là, quando verrà dato lo stallatico, invece si controllano i pali, i migliori sono quelli in castagno perché è resistente all’acqua, bisogna raddrizzarli, ma alcuni devono essere sostituiti, forse spaccati da qualche fulmine o vecchi di secoli.
Infine, si tirano i “ferramini”, cioè i fili di ferro zincato a cui la vite si appoggia, allentati dal peso dei grappoli della stagione scorsa.
I pali scartati e divelti sono accatastati ordinatamente alla fine di uno o più filari, secondo la loro quantità, un trattore con rimorchio passerà in capo a qualche giorno a portarli via, spesso si tratta dello stesso trattore per molte vigne di diversi proprietari che si mettono d’accordo annualmente e a turno compiono il giro.
Prima dell’arrivo del trattore, guardando le vigne nel loro insieme da una qualsiasi prospettiva, sopra, sotto, di lato, si vedono accanto alle viti scheletriche, sopra la terra svuotata dal gelo appena passato, le cataste di pali in disuso a sfoggiare un intraducibile colore azzurro intenso, carta da zucchero, a causa del verderame assorbito in tanti anni di onorato servizio.
Sono macchie di colore inaspettate, segni festosi di qualcosa che verrà. Dentro una giornata di fine inverno, è singolare che il presentimento della stagione nuova sia affidato a cumuli di poveri scarti, ma è così che le regali viti, nude, che più nude di così non si può, riescono a stornare l’attenzione dalla loro nudità, accettando un’ultima volta i servigi dei loro maggiordomi fedeli.

Ilaria Beretta

p.s. di Pia Pera: da noi in Toscana, invece, i contadini usano i rametti di salice prima messi a mollo, ho imparato perfino io a farlo, e credo sia meno faticoso che con la lentiggine!