Letture

GODERE DELLA TERRA

Articolo scritto in occasione della festa della Bio-diversità alla coop Dulcamara (www.coopdulcamara.it) il 24- 10 – 2010
 
La mano che insegnò a vedere agli occhi
Maneggiando e lavorando materie prime naturali si impara a notare certi elementi del territorio. Prima di cominciare a fare cesti non avevo mai notato gli alberi di salice, anche i più vicini alla mia abitazione eppure ci sono sempre stati. Adesso vedo salici dappertutto anche a distanza.
Mano mano si progredisce con la pratica si impara a notare le differenze fra uno e l’altro, capire le differenze di resistenza, flessibilità e struttura della pianta cioè se tende a crescere con lunghi getti dritti oppure se tende a diramare. Generalmente il cestaio tradizionale seleziona poche varietà adatte al suo lavoro ma sa grossomodo distinguere anche le altre e magari attribuirgli altre utilità (sostegno per le viti, per reggere con le radici le rive dei fossi).
Inoltre se si girassero anche solo 3 o 4 province per sondare quali tipi di salice utilizzano questi cestai che ancora raccolgono in loco i vimini si scoprirebbe un mosaico di biodiversità fatto di tante varietà che a seconda della duttilità concorrono a determinare la forma e la consistenza del cesto.
Inoltre attraverso l’osservazione negli anni si può tentare di capire come mai un anno la pianta abbia “sofferto” e prodotto un materiale meno pregiato.
In definitiva, come uno scienziato da laboratorio, anche il contadino o l’artigiano cerca di capire le cause ambientali e climatiche che ha determinato quella situazione, sapere riconoscere le situazioni ottimali e le catene di coincidenze ecologiche che portano ad avere una materia prima di eccellenza…
Questo tipo di conoscenza è molto diversa da quella che può avere un botanico fresco di laurea ma privo di esperienza che potrebbe arrivare (non senza molte difficoltà) a riconoscere la stessa pianta possedendo molte informazioni di essa, ma in fondo nessuna conoscenza reale.
Per chi non si è mai interessato, tutte le piante sono solo “piante”… Per il “topo da biblioteca” sono “nomi di piante”.
Vedere un vimini che cresce solo in quella zona e già immaginarsi il cesto che ne uscirà oppure il ciliegio e sentire profumo del suo legno quando lo si lavora oppure vedere la terra e pregustare il piacere di farne un vaso che non creperà in cottura fa parte di alcuni modi di godere della biodiversità.
Se perderemo questi saper fare e i governi si impegnassero a catalogare ogni specie vivente e non e a proteggerla nel suo ambiente naturale (una previsione più che ottimistica) la natura potrebbe apparirci come quei musei dove stanno oggetti estranei, fermi lontani dalle mani che li potrebbero usare e dove nella maggior parte dei casi ci si annoia.
Certo, rispetto ad un museo, la natura conserva il suo fascino e la bellezza dei suoi scenari, ma sono convinto che avere un minimo di esperienza con queste materie si possa apprezzare anche di più questa bellezza. Inoltre, senza la mano dell’uomo che da sempre ha contribuito a modellare il paesaggio, alcuni paesaggi possono apparire a molti come pericolosi o temibili… meno familiari.
I salici e gli altri alberi come le pietre o le terre non sono tutte uguali come può apparire ad un cittadino distratto che trascorre un week end in campagna o ad un estraneo della materia.
Conoscendoli, si ha una possibilità in più di apprezzare la natura la sua bellezza, specificità e complessità e il suo dinamismo… non è più un dipinto immobile ma, avendo nelle mani e nella testa l’intero processo, si coglie in un attimo un meraviglioso dipinto vivo e mutevole. Si ha una possibilità in più di dialogare con il paesaggio, avere un interesse comune, sentire di esserne parte in quanto ci è utile ma allo stesso tempo, conoscendo i suoi limiti, noi siamo utili nel curarlo e mantenerlo.
E’ vero che ne secolo scorso molte delle persone non si muovevano in media durante tutta la vita più di 5 km. Ma probabilmente ci sbagliamo se pensiamo al passato come una realtà stantia e senza dinamismo. Viaggiatori e avventurieri non mancavano inoltre non mancava una certa circolazione genetica, biologica. Chi andava in un’altra provincia o regione per lavoro, per fare il pastore, il seggiolaio, o l’ambulante certamente se avrà notato una varietà di salice, ai suoi occhi, migliore della sua o una zucca più produttiva di quella che si trovava nell’orto non avrà esitato a chiederla… Difficilmente gli sarà stato negato qualche seme o qualche talea… Importando questa varietà nella propria vallata di origine si può supporre che molte di queste varietà non si sono rivelate adatte ma altre sicuramente si ed abbiano continuato ad adattarsi al luogo attraverso la selezione e modificazione genetica naturale e la selezione manuale fatta dall’uomo.
In altri termini il contadino o l’artigiano faceva un opera continua di domesticazione di animali, piante sia selvatiche che straniere, inoltre le provava su diversi suoli e non mancavano piccoli esperimenti con innesti e forse ibridazioni. Attraverso un metodo scientifico, prove ed errori, contadini ed artigiani concorrevano alla formazione di biodiversità sostenibile.
Testimone di questo fatto è un esempio che ci viene da Pennabilli, un paesino sulle montagne marchigiane. Un insegnante di Ginnastica mandò un gruppo di studenti da nonni e parenti sparsi per i vari poderi a cercare dei pomodori. Con grande sorpresa di tutti i ragazzi tornarono con pomodori gialli, bianchi, grossi come una ciliegia o come una pesca, tutti riprodotti con i semi degli stessi frutti… 14 varietà nel giro di poche vallate.
Quelle varietà erano discendenti di quelle che arrivarono con Cristoforo Colombo e chi dopo di lui… Esistono infatti 4000 varietà di pomodoro sparse per il mondo mentre in commercio in Italia se ne trovano circa 13 e sono tutti ibridi.
Sicuramente la conformazione geologica e l’isolamento di una valle o di un isola favoriscono una migliore conservazione della varietà.
Ma c’è un altro fattore che secondo me è utile tenere in considerazione. Oggi l’acquisto delle sementi e in generale delle materie prime si fa nei grossi centri di distribuzione (supermarket, negozi specializzati) e in molte realtà non si chiede al vicino come procurarsi piantine, sementi o materie prime in loco.
In questo modo si è in balia dell’arbitrio di pochi che hanno tutto il vantaggio di limitare l’accesso diretto alle materie prime e alla produzione di materie prime non riproducibili con buoni risultati (ibridi) o non riproducibili e basta (OGM terminator).
Da qui si capiscono le varie leggi e leggiucchiette fatte sulla pressione di queste lobby che limitano la possibilità di impiantare e vendere vecchie varietà, che impediscono di estrarre la terra per fare qualche teglia o di raccogliere vegetali spontanei ed erbe palustri per impagliare o intrecciare, tendendo a trasformare le aree naturali in aree intoccabili dal comune cittadino, ignorando che accanto sono scomparse intere montagne spargendo le loro pietre in giro per il mondo, saccheggiato sabbia ai fiumi, reso fertili pianure dei deserti avvelenati di monocultura.
Gli esempi potrebbero continuare ma non è questa la sede… Quello che invece ha da secoli favorito la conservazione della biodiversità e delle conoscenze di come utilizzarla è questa logica di rete, di scambio, di gesti apparentemente gratuiti, incredibilmente più attiva in passato di oggi nei paesi occidentalizzati.
Il mais recuperato a Pennabilli è molto meno produttivo di un mais industriale ma a differenza di questo produce sempre, che ci sia siccità o che sia su un terreno povero e poco concimato.
“Il sofisticato mais ibrido moderno invece se non riceve une determinato quantitativo di acqua e di concimi… non fa poco… non produce nulla.” Assicura Gigi Mattei.
E questo sta a dimostrare quanto una serie di conoscenze distribuite e biodiversità naturalmente distribuite sono in grado fornire all’uomo quello di cui a bisogno veramente per vivere dignitosamente.
Oggi le reti di scambio non si limitano solo al vicinato ma si sono adattate ai mezzi di comunicazione di massa per cui in Italia possono essere riprodotte varietà Indiane là scomparse… e viceversa, l’importante è che siano sempre a disposizione e non solo chiuse in musei, centri Vavilof o in un recinto di proibizioni.
Contadini ed artigiani sperimentatori?
Si ma con possibilità infinitamente inferiori rispetto alla scienza…
Anche questo è tutto da verificare caso per caso. La scienza con la tecnica laboratoriale ha bisogno di condizioni identiche, di ambienti asettici di alcune variabili misurabili… generalmente poche. Arriva a dei risultati impressionanti riuscendo  quasi a vedere cosa c’è dentro un atomo. Questo tipo di scoperte però sono state fatte in molti anni e in pochi laboratori in quanto molto costose. La ricerca, per sua natura, non è immediatamente pragmatica e non porta sempre ed immediatamente a conseguenze ed implicazioni positive per la cittadinanza. Tanto meno per chi la finanzia.
Un contadino come un falegname o un costruttore tradizionale, arrivato ad un certo livello di maestria per curiosità, per passione o per necessità contingenti si confronta nella vita e durante il suo lavoro con un certo tipo di ricerca. Testa diverse essenze vegetali su molti terreni, fa incroci ed innesti. Venendo a mancare dei materiali ne utilizza altri e guarda come reagiscono negli anni. Ricerca dei materiali sostitutivi sul territorio e ne acquisisce una conoscenza molto approfondita, pur non disponendo di cartine geologiche o Gps.
Masanobu Fukuoka utilizzando un falcetto e dell’argilla riusciva ad attere da 1 ettaro 8 quintali di riso coltivato a secco. Battendo così i record delle multinazionali agricole con non riuscivano ad eguagliare quel risultato utilizzando macchinari e prodotti chimici.
Si può già notare che a volte i risultati della ricerca rurale sono efficaci pur non richiedendo una complicata filiera industriale per raggiungerli (macchine, lavorazione dei metalli, lavorazione di prodotti chimici, petrolio, energia ecc.), quindi sono di gran lunga più sostenibili.
Se si osservano i modi tradizionali di lavorare la terra cruda se ne trovano 25 nel mondo: mattone crudo, torchie, terra paglia, terra colata, terra battuta, pisè ecc..
“Con ogni terra si possono fare delle cose e non se ne possono fare delle altre.” Affermava Anna dell’Università di Udine. A partire dalla struttura di ogni terra e delle sue componenti, dei suoi pregi e dei suoi difetti, ogni popolazione, a volte ogni paese e ogni frazione sapeva come si poteva adoperare quello che aveva sotto i piedi e conosceva dove variava dove si poteva trovare la “vena giusta”. Lo stesso potremmo applicare alle essenze arboree, le erbe curative spontanee, le risorse agroalimentari, forse anche per molti minerali, materiali locali che spesso tradizionalmente erano conosciuti molto bene sapendoli lavorare e trasformare in beni d’uso… non merci di consumo.
Maurizio, l’ultimo tegliaio che fa testi tradizionali in argilla per la piadina, mi raccontava che “Voglio ancora andare a parlare con i vecchi, specialmente con uno, che mi ha raccontato una volta che riusciva a cuocere i pezzi anche senza il forno ma semplicemente con un ferro che si metteva sopra…”
Molti scoraggiano questo tipo di operazioni dicendo che tanto oggi può benissimo disporre di forni a legna a gas e addirittura elettrici.
“Tanti non capiscono” proseguiva Maurizio “che più riusciamo ad andare indietro, tanto più riusciamo ad andare poi avanti! Quando riuscivano a lavorare il materiale praticamente senza attrezzi vuol dire che conoscevano benissimo il materiale”
E Tonino il muratore che ha ristrutturato la metà degli edifici Storici fra Ravenna e il Cesenate aggiungeva “Prendi pure quella cazzuola… faccio anche con un altro attrezzo, ricordati che è il principiante che ha bisogno di tutti gli attrezzi giusti… il vecchio si adatta con quello che ha.”
In effetti a pensare ai mezzi tecnologici che avevano Egiziani, Arabi e Romani viene i brividi a come abbiano potuto fare Cupole enormi (difficilmente riproducibili con i mezzi di oggi), fondamenta sottomarine con pali, pozzolana e calce, edificato in aree sismiche o con terreni sabbiosi (come la mezchita di Cordoba in spagna con le colonne legate da una rete di travi di quercia)… a costruire in Zone sismiche (A Cuzco le costruzione in acciaio e cemento cascano sotto le scosse mentre il vecchio nucleo della città non fa una piega.)… A far nascere l’acqua nel deserto (con un complicato sistema di galleria che intercettava di notte l’umidità della sabbia che sarebbe evaporata la mattina) Ad utilizzare nel centro delle costruzioni di centinaia di Tonnellate che oggi si faticherebbe a muovere con i moderni macchinari. Purtroppo oggi queste e molte altre abilità più elementari sono andate perse nel corso dei secoli.
Guardare come asciuga e come creperà un’asse di legno…  capire come si muovono muri, travi, malte, intonaci, con il freddo, il caldo… sentire la densità di un impasto di un vaso che sta per andare in cottura, studiare il comportamento di un animale nel gruppo…
Capire nella pratica come si comporta la materia e sapere come e dove impiegarla, riuscire a mimarne i movimenti impercettibili, testare i delicatissimi equilibri fra i componenti, intuire i processi di trasformazione fino a sentire su di sé delle sensazioni corporee… Sono i risultati estremamente soggettivi della ricerca quotidiana di artigiani e contadini… un processo che coinvolge razionalità, capacità di osservazione prolungata, emozione e passione… Un risultato personale difficilmente comunicabile e comprensibile da un estraneo (non a caso l’apprendistato richiedeva numerosi anni e sacrifici) eppure  inoppugnabile quando si osservano certi lavori.
Quando la ricerca centralizzata si mette in moto per immettere un nuovo prodotto, per necessità economiche, tralascia la conoscenza di piccoli giacimenti, colture, medicinali e malattie di nicchia. Mira ad avere risultati applicabili larghissima scala. Gli basta un grande punto di prelievo, poche varietà da impiegare. Acquisisce una gran quantità di dati e test su un’area molto limitata di materie prime che richiede in grandi quantità. Cosi facendo la conoscenza che né deriva è molto approfondita, ma è una sola o poche, non sono le 1000 conoscenze acquisite da altrettante persone rispetto alle materie prime biodiverse locali.
La ricerca industriale arriva spesso anche a generare una certo appiattimento e povertà di prodotti che ci tiene a garantire danno tutti le stesse prestazioni (magari però disponibili in una vastissima gamma di colori ma nella sostanza quasi identici) anche se per giungere a questo punto ha dovuto utilizzare gran quantità di colle, sostanze chimiche, condizioni brutali rispetto alla vita vegetale ed animale.
Giornali, TV, Radio, tutti dedicano una pagina alla scoperta del tale cromosoma od ormone, al tale materiale ecc. Dicendo spesso il contrario  di quanto affermato in precedenza… in definitiva la conoscenza acquisita in questo modo si presenta come un ammasso di dati ed informazioni ma distanti non potendone afferrare la logica interna e personalmente la trovo meno affascinante del mondo complesso fatto di luoghi caratteristici, di persone, volti e riti legati ai mestieri.
Inoltre avendo individuato il prodotto, necessita per produrlo di grandi quantità di quella materia prima incoraggiando un utilizzo unico del territorio: centri di estrazione, immense aree di lavorazione, aree di smaltimento rifiuti…
Mentre il campo che si coltiva può essere utilizzato per prelevarne un piccolo quantitativo di terra a scopi costruttivi… oppure nella collina dove si estrae ogni tanto terra da cuocere o sassi, pascolano tranquillamente le capre o ci giocano i bambini, la foresta dove cresce il legname del falegname o del liutaio può essere utilizzata per finalità venatorie o per raccogliere funghi o erbe spontanee… Sotto il filare di salici ci può essere un campo di bietole o può scorrere un fiume dove si pesca ecc. ecc.
Spesso e volentieri le esigenze artigianali generano luoghi che possono essere vissuti, sfruttati, goduti e rispettati in molti modi diversi e non a senso unico, non solo “esclusivamente” da loro… ma diventano luoghi particolari, in un grande quadro d’arte vivente che è patrimonio di tutti.
Accorgersi che abbiamo ancora le mani
A scuola, quando uno studente aveva scarsi rendimenti mi ricordo che consigliavano una scuola professionale, “la Moretto o gli Artigianelli”.
Questo era il termometro di una società che aveva declassato il lavoro manuale come qualcosa di seconda scelta… da ritardato mentale. In effetti a scuola si studiavano i logaritmi le espressioni di terzo grado, i numeri integrali… veniva fortemente testata l’intelligenza astratta e denigrata quella concreta… le leggi universali contro l’esperienza diretta… ”suo figlio ha un ragionamento troppo terra terra”.
Ma visti i risultati che ha prodotto “l’impero della matematica e del virtuale”: edifici ‘concettuali’ che non reggono ad un acquazzone reale, beni poco durevoli, derivati finanziari (un debito che ti frutta soldi… all’inizio poi ti manda in banca rotta) lavoro flessibile e superficiale ecc.  Beh meglio un po’ di senso pratico… meglio un po’ di pensiero terra terra che non usa ciecamente paroloni come mercato, crescita, targhet, progresso.
Anche alcuni intellettuali riscoprono vecchi paradigmi:
“Richard Sennett ha pubblicato di recente “L’uomo artigiano”: una riflessione quanto mai attuale sul lavoro fatto con arte, sapienza manuale e intelligenza, un elogio delle virtù della cultura tecnica, della maestria e del saper fare. Moderni artigiani sono tutti coloro che svolgono un dialogo quotidiano tra pratiche concrete e pensiero, coloro che hanno il desiderio e sanno svolgere bene un lavoro, dotati di competenze che nella storia hanno consentito lo sviluppo di tecniche raffinatissime e la nascita della conoscenza scientifica.“
In Ilalia la politica ha gradualmente cercato di uccidere il piccolo artigianato (in alcuni settori tra i più raffinati al mondo). Oltre ad affogarlo in un mare di burocrazia che sottoponeva una piccola bottega ad obblighi quasi identici ad una grande fabbrica Guarberto Bormioli, un famoso liutaio, raccontava: “Se avevi un apprendista lo stato non ti aiutava… gli altri andavano a scuola ed era gratuita tu dovevi pure versagli i contributi. Poi dopo 2 anni quando cominciava a rendere se ne andava e ti apriva la bottega di fianco e cominciava pure a farti concorrenza.”
Eppure la mancanza di questa dimensione del sapere comincia a farsi sentire… attraverso la mancanza di beni duraturi, i beni di qualità, la capacità di utilizzare materie prime naturali di pregio e atossiche, la capacità di aggiustare le cose e non ultima, secondo me, un certo benessere psicologico.
Mi spiego, la stragrande maggioranza degli uomini e delle donne a passato gli ultimi 5000 anni con la testa chiana su un oggetto di concentrazione che fosse una stoffa, un pezzo di legno, di ferro o un pezzo di terra. L’autoproduzione e gli hobby sono sempre stati a carattere manuale (i Leopardi o i Flubert erano pochi). Attività che richiedevano concentrazione, coordinazione fra il pensiero astratto, le idee con la materia in cui incarnarle; che richiedeva la conoscenza e il rispetto di regole, principi da una parte e senso delle proporzioni, gusto estetico dall’altra; la parte sinistra e destra del cervello.
Questo per millenni e si può presupporre che anche il nostro sistema nervoso si sia lentamente adattato a questo tipo di attività… Oggi a scuola si insegnano inglese, matematica, informatica… codici, codici, codici. I passatempi sono per lo più elettronici e i lavori desiderabili sono sempre seduti, puliti, vestiti bene e di fronte ad un bel computer.
Questo secondo me crea un certo squilibrio. Sì, potremmo adattarci anche biologicamente… ma i tempi sono biologici e richiedono circa 4000 generazioni…
Durante i corsi di cesteria è facile constatare come la grandissima maggioranza delle persone non sia più abituata a gestire più di una o due variabili: mentre fai un cesto bisogna tenere conto delle regole basilari dell’intreccio, c’è la flessibilità e la lunghezza del materiale, la forma, l’accostamento estetico dei colori e degli intrecci ecc.
Ma allo stesso modo i principianti, quando finiscono il loro cesto, vedendo il risultato (per quanto rachitico e contorto possa essere), sono enormemente meravigliati di avere “creato un oggetto partendo da alcuni rametti”, ai loro occhi quello sembra il cesto più bello del mondo.
Daniele Zavalloni, vista l’alta percentuale di informatici, un giorno chiese come mai venissero a corsi del genere e uno rispose “Io lavoro tutto il giorno, anche 10 ore al giorno, ma quando spengo il computer, non vedo niente, come se il prodotto del mio lavoro non esistesse… Ho bisogno di fare qualcosa con le mani… qualcosa di reale… per non impazzire.”
Si aggiunga che questo tipo di sapere richiede diversi stili di apprendimento… per esempio è importantissimo imparare a copiare e ripetere più volte… Ed è diversa anche la durata di tali nozioni… Moltissimi cestai che incontro avevano imparto a fare dei cesti anche di un metro a 12 anni… a 60, una volta andati in pensione si sono rimessi con i vimini in mano per vedere se ancora erano capaci e dopo due o tre prove hanno riacquistato tutta la loro dimestichezza.
Quelli che anche io consideravo come semplici corsetti per hobbisti rappresentano invece un’opportunità enorme per la nostra società. Occorre una rivalutazione globale del sapere manuale, proprio anche in relazione al fatto come questo sia sempre stato il perno su cui poggia la conoscenza della biodiversità naturale.
Si può (e si deve a mio avviso) andare oltre l’ottica del corso, iniziando a ricercare le persone che ancora praticano queste arti, imparare, condividere in maniera paritaria formando associazioni, ritrovi di appassionati, manifestazioni e pubblicazioni divulgative.
Pallante ricorda che  “far crescere un consumatore incapace di produrre qualsiasi bene a lui utile lo rende un cittadino perfettamente dipendente dal sistema economico” inoltre distaccato completamente dalla sua identità e dalla sua cultura materiale!
E’ importante anche solo avere un’infarinatura di questi saperi… conoscere una poesia di Carducci è altrettanto importante che sapere come si fa una seggiola su cui sediamo tutti i giorni e come l’hanno sempre fatta i nostri antenati!
Non è necessario che tutti diventino dei professionisti ma è importante che sapere a chi rivolgersi, riconoscere l’importanza di queste conoscenze, e distinguere un lavoro che danneggia l’uomo, la sua salute, il suo ambiente e umilia la sua intelligenze… e lavori che per loro natura sono sostenibili, ci fanno capire da dove veniamo e dove potremmo andare.
Andrea Magnolini
www.passileggerisullaterra.it