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BIRDWATCHING, GLI UCCELLI CI GUARDANO

Birdwatching, gli uccelli ci guardano
Una volta provato non ne puoi più fare a meno, ne vorresti ogni giorno di più e sempre di maggiore qualità. Poi, se qualche malcapitato osa negarti la dose quotidiana rischia almeno i tuoi fulmini.
Una droga? Chiamala come vuoi, è l’effetto che fa il silenzio in campagna.
Prima di sviluppare questa dipendenza, vivevo in città. Lì, il brusio di un televisore da una finestra, i passi ciabattoni del vicino di sopra mi erano indifferenti, forse non li sentivo neppure. Da quando la mia nuova vita in campagna obbliga a lunghi periodi di solitudine e isolamento, un motorino che passa mi sembra una deflagrazione. Lo confesso, ai giovani piloti impegnati con i loro ansimanti trabiccoli su per la salita davanti a casa mia, non manco mai di lanciare un’occhiataccia, che tradotta significa: “Perché i tuoi genitori ti hanno regalato un motorino invece di una vacanza in Venezuela o meglio ancora in Antartide?”
Sarà per questo che una notte, quando un suono acuto e sistematico si è messo a frantumare il silenzio in schegge, ho pensato subito all’antifurto fatto scattare improvvidamente da qualche vicino brillo di ritorno dal bar del paese, e ho intessuto, in quei lunghi minuti, alcuni precisi pensieri assassini. E sarei andata in prigione per niente. Non era un allarme. Non sapevo ancora che era cominciata la prima di tante stagioni a venire, la prima delle tante notti del Chiù.
Il chiurlo (Numenius arquata), ovvero il Chiù, come viene chiamato qui, è un visitatore regolare del borgo in cui vivo, complici l’adiacente boschetto selvaggio che vanta alcuni alberi altissimi, e le numerose antenne televisive svettanti i tetti. Infatti, il chiurlo ha la mania delle altezze, ama appostarsi di notte più in alto che può, forse per diffondere il più lontano possibile il suo canto regolare e infinito. Chiuu – dieci secondi di silenzio – chiuu – dieci secondi di silenzio e via dicendo. Viene sempre in primavera e in estate, il suo verso può durare per ore e alla fine, posso assicurare, ci si addormenta comunque contro ogni speranza, forse perché ossessivo è parente di ipnotico, chissà.
Una notte d’estate di qualche anno dopo l’allarme fasullo, erano appena passate le due; musicisti e cantanti avevano spento microfoni e amplificatori e il mormorio della gente che tornava a casa suggellava la fine dell’ennesima sagra o di paese.
Il chiurlo era giunto proprio in concomitanza della festa, quattro giorni prima. Si era messo a chiurlare con l’intento di richiamare l’attenzione di qualcuno, magari una fidanzata, attraverso tutto il bosco che ricopre la valle e le valli vicine. Aveva cominciato la sua performance verso le otto, ma alle nove in punto era scoppiato l’inferno: la sagra estiva con la sua discoteca sotto le stelle, piantata nel bel mezzo del bosco.
Un fragore così il chiurlo non doveva averlo mai sentito e infatti alle due del mattino quando il frastuono finisce non è certo lì. La sera dopo lui è puntuale, ore otto, ma anche la festa, ore nove, che lo interrompe, e ancora così fino al quarto giorno, in cui la sagra finalmente finisce. Ma il povero chiurlo doveva essersi veramente arrabbiato, questi stupidi umani che mettono musiche psichedeliche e mazurke a volume altissimo nel bosco, che è il suo spazio, non il loro.
E infatti, posandosi sull’antenna più alta della zona, quella del mio vicino di casa, ha atteso il perfetto silenzio e, a quel punto, il suo verso è diventato un grido di stizza e di riprovazione che ha lacerato la notte, non era amorevole e regolare, come eravamo abituati a sentirlo, era un insulto. Qualcuno gli aveva fatto saltare il suo appuntamento stagionale, chi poteva dargli torto?
Una delle cose più difficili da quando vivo qui è stata mantenere l’abitudine a guardare in su, sempre china sulle istruzioni per l’uso di qualcosa, macchinario, attrezzo, semenze, concimi; e con la fronte sempre rivolta alla terra che non ammette distrazioni, anzi, le ammette eccome, così può fare a capriccio suo. Il cielo, in campagna, viene a perdere almeno in parte la sua funzione di ponte verso l’assoluto, per diventare quasi esclusivamente il pallottoliere della semina e dell’innaffiamento, del brutto e del bel tempo, la tabella di marcia dei lavori da fare e quelli da pianificare. Ma se noi non osserviamo lui, trovando magari l’assoluto a poche vangate da lì, lui osserva noi, attraverso i suoi messaggeri. Invisibili come gli dei, onnipresenti come i satelliti, giudici come il Grande Fratello, frullanti d’ali come gli angeli, sono loro, gli uccelli, partecipi delle azioni umane e in perfetta sincronia con esse.
Il primo pennuto a farmi una visita “personale” è stato l’upupa (Upupa epops). Con cresta irta tipo punk o all’indietro tipo Grease, secondo il momento, ha scandagliato tutti gli angoli esterni della mia casa, attratta dai nidi dei ragni, di cui è ghiotta, situati tra le capriate del tetto. Sempre sul mio tetto, a causa di una grondaia insufficiente a smaltirne la portata d’acqua, uccellini di ogni colore e dimensione si danno appuntamento per il bagno, facendo molto starnazzo in perfetta letizia e promiscuità. Non c’è niente di meglio dell’acqua piovana appena caduta, ben riscaldata dal sole attraverso il potenziamento del calore delle gronde di rame. Piscina termica e panoramica. Temo che non cambierò neppure quest’anno quella parte di tetto.
Ci sono i bagni e ci sono i fanghi. La tortora (Turtur turtur), che viaggia sempre in coppia con il suo fedele partner di vita, ama fare dei bagni di polvere come molti uccelli, ma li preferisce nell’asfalfo. E poiché le crepe che si creano sul manto stradale non sono mai tanto grandi, e contengono al massimo una o due tortore, è veramente uno spettacolo osservare come tutte si precipitino a fare fanghi e terme in coppia, scambiandosi qualche affettuosità, in attesa del loro turno sui fili tesi della luce là sopra.
E c’è asfalto e asfalto, strada e strada. Il merlo (Turdus merula), la gazza (Pica pica) e la cornacchia (Cornus corone cornix) hanno imparato che le automobili passando schiacciano i semi, le noci e, purtroppo, non solo quelli, così si piazzano al margine delle strade in attesa che qualcuno passi a bordo del suo enorme schiaccianoci e gli faccia questo favore. Se poi qualche distratto investe anche un rospo o un orbettino, loro sono contenti lo stesso, variano solo il menù.
Ancora, intere famiglie di cornacchie osservano attente a debita distanza, il passaggio dell’aratro nei campi, pronte a fare incetta di larve venute alla luce dopo il rivolgimento del terreno.
La ghiandaia (Garrulus glandarius), facile preda di uccelli più grandi, per spostarsi vola bassissima e attende il nostro passaggio per attraversare le parti scoperte di un bosco, ben sapendo che è l’uomo l’animale più temuto di tutti e che il suo arrivo distoglie qualsiasi predatore, anche il più motivato.
Alla stazione ferroviaria di Arquata Scrivia, quella più vicino a questa campagna, nel primo pomeriggio si può assistere alla ordinata parata di un bel gruppo di piccioni (Columba livia), e di gabbiani (Laridae) provenienti dal vicino fiume, che in gruppo solidale, attendono il passaggio di uno speciale treno, i cui container recitano sui fianchi “Trans-cereales”, e che hanno la particolarità di sfarinare gratuitamente nell’aria abbondanti porzioni del loro contenuto. Perché elemosinare nelle piazze quando c’è un benefattore così prodigale?
Ma non ci sono solo cibo, lotta per la sopravvivenza e igiene a fare in modo che i messaggeri del Cielo trovino sulla Terra, e nell’uomo, un utile compagno della propria quotidianità. Una gazza, selvatica, ma salvata miracolosamente da un vicino di casa, adora guardare i vecchi del paese tra i quali il suo salvatore, assorti intorno al tavolo delle carte, si piazza alle spalle dei giocatori sui vari schienali di seggiola, osservando con discrezione gli sviluppi del gioco.
Nel mio giardino c’era un grande e spinoso Berberis thunbergii. Elda, la proprietaria precedente che lo aveva piantato, mi aveva raccomandato di curarlo, quel cespuglio, perché d’inverno molti uccellini della zona avrebbero trovato nelle sue bacche rosse il loro unico sostentamento. Purtroppo ho molti gatti, di conseguenza ho trascorso interi pomeriggi con la scopa in mano a fare da sentinella al Berberis e ai suoi avventori intirizziti, che sfidavano la morte certa tra le grinfie feline o il ferimento grave da spina, pur di nutrirsi. Tre anni fa però non sono riuscita a salvare il Berberis da una malattia che gli faceva cadere le foglie e così l’ho tagliato.
Ho sperato che gli uccellini avessero osservato senza scoraggiarsi anche questa mia azione, perché subito dopo ho piantato del cotonastro (Cotoneaster horizontalis), che ha lo stesso tipo di bacca del Berberis ma non ci si deve inoltrare in un antro di spine per nutrirsi. Ne ho piantato un’intera collinetta, neppure un’armata di gatti prussiani potrebbe piantonarla interamente e la pendenza notevole non permette alla neve di depositarsi in cumulo.
Infatti, proprio quando la neve ricopre per settimane ogni cosa, rimangono ad allietare il giardino solo le rosse bacche del cotognastro, Elda non ne sarebbe dispiaciuta. Dalla mia finestra si può osservare un continuo veloce planare. Il silenzio in inverno raggiunge allora la sua profondità assoluta e i fremiti nella neve fresca, messa a soqquadro da una miriade di ali, lo fanno diventare perfetto.
Ilaria Beretta