Letture

ORTI ARMENI

di Ezio Menzione
Siamo in Armenia, nei giorni che precedono il centenario del genocidio del popolo armeno.
Gli orrendi ricordi, inevitabilmente, si stemperano al primo tepore primaverile, sullo sfondo della neve che ricopre come sempre l’Ararat così come, ancora, le rive del grande lago Sevan. La dolcezza di questa terra rimanda però a chi la dovette forzatamente lasciare per andare a morire nel deserto siriano.
Gli orti ed i giardini, di cui gli armeni sono sempre andati fierissimi e così ben descritti nel romanzo di Antonia Arslan, “La masseria delle allodole”, fanno sì che ogni casa, ogni chiesa sia circondata da un tripudio di fiori di alberi da frutto: albicocchi, ciliegi, peschi fioriscono anche se sono ancora lambiti dalla neve. Le pecore pascolano sotto gli alberi fioriti nel frutteto di una chiesa: Garnic, l’archimandrita dalla bellissima voce, che dispiega nel giorno di Pasqua, tiene le pecore da un lato, le rose dall’altro del vialetto di ingresso alla vecchia chiesa, ben restaurata. Pecore, alberi da frutto, ortaggi e fiori si contendono le grandi estensioni come i più piccoli spazi. Tutto serve, tutto produce utilità e bellezza, spesso assieme, in una equilibrata mistura delle due cose. Come se i mille stenti sopportati da generazioni di armeni avessero loro insegnato a mettere da parte, sì, i prodotti della terra, ma non disgiungendo mai la produzione dal piacere che piante e fiori possono dare dalla loro utilità.
I melograni, l’albero e il frutto simboli dell’Armenia, stanno mettendo appena le foglioline, ma posso immaginare che trionfo essi saranno alla fine dell’estate di colori, di fogliame, di fiori vermigli che diventano pian piano sfere rosse e oro, di dolcezza che sprigiona dai frutti,
In tutta l’Armenia ormai, se non sbaglio, c’è una sola moschea, essendo il paese tutto cristiano ed a suo tempo ha pagato un prezzo altissimo per questa sua religione. La moschea si trova nella capitale, Yerevan, ed è abbastanza ben ricostruita su una preesistente: grande, ma non enorme, con le piastrelle policrome, il minareto colorato, l’ampio arco di ingresso. Restaurata con soldi iraniani per quei turisti che dall’Iran arrivano spesso. Vuota ma ben tenuta dal “sagrestano” persiano, che cura anche l’ampio giardino di tipica foggia islamica con al centro un classico rivolo d’acqua. I due lati sono piantumati in maniera simmetrica con alberi da frutto, file di rose, pianticelle da fiore (appena spuntate). La particolarità sta nel fatto che si tratta di essenze tipiche della Persia: le albicocche sono quelle piccole e sugose di Isfahan, le rose sono le vecchie damascene che non vengono però da Damasco, ma dagli altopiani al confine con l’Afghanistan e così via: si è inteso ricreare, evidentemente, un angolo di Persia mussulmana in pieno cristianesimo armeno.
Si mescolano poco in questa terra le due religioni, però convivono, ognuna con le sue specificità, e speriamo che continuino a farlo, nei secoli dei secoli.