Letture

I SEMI ALATI DEL GAROFANINO DI MONTAGNA PER VOLARE DA PIA

Alla fine ho dovuto trasferirmi. La grande casa di campagna circondata da boschetto, frutteto con giardino a fasce e orto era diventava troppo. Troppo complicata, troppo lontana, troppo isolata, troppo piantata sul tetto del mondo. Jorge Luis Borges ha scritto: «Edificate sulla sabbia come se fosse roccia» ma io, quando ho capito che l’avrei lasciata, ho pensato che avrei fatto meglio a fare il contrario, considerare la roccia e la pietra con la quale era fatta la mia casa, sabbia. Facile da far passare tra le dita, facile per farci la forma che vogliamo e facile per cancellare con un semplice gesto la forma che non vogliamo vedere. Ma tanto è, la roccia è quella e le scelte pure.
Se lasciare una casa ha un suo peso psicologico, separarsi dal giardino non trova parole adatte nel vocabolario dei sarti, alla voce “Strappi”. Lì, nel giardino che conosciamo palmo a palmo, la vita ha messo radici e in molti casi abbiamo contribuito anche noi a quel radicamento; ogni pianta ha trovato il suo spazio per aria e nelle profondità della terra, le radici si sono intrecciate ad altre, nel sottosuolo l’umido il fresco e il buio hanno creato le condizioni migliori per dare rigoglio a – lo vediamo come mai prima – tutte le piante, gli alberi e i cespugli nel sole che ora si piegano al vento con le foglie che tintinnano. Ci rendiamo conto che ogni crescita è stata un’espansione anche della nostra anima, quella che non può e non vuole stare ferma, ma che incarnandosi in ognuna delle piante del suo giardino, accetta una forma e un luogo.
Per questo, sapendo che avrei venduto la casa, ho provveduto a fare talee su talee da portare poi nel piccolo giardino di città? Solo alcune piante, come due ortensie e una rosa centifolia bianca rampicante, erano già in vaso: nei quattordici anni di vita nell’antica casa non ero riuscita ancora a trovare un posto adeguato, con i loro grandi vasi e la loro bellezza straripante riuscivano a rendere attraenti anche i muri del rudere all’interno della proprietà e ogni volta che mi veniva voglia di metterle a dimora, rimanevo dubbiosa.
Alla fine, i trasportatori hanno caricato mobili e piante, ed è cominciata questa nuova vita di città dove il nuovo giardino (piccolissimo) si affaccia su un boschetto comunale, e dove le rose ‘Saint Swithun’ stirano le loro lunghe braccia verso l’alto, appoggiate al pergolato fatto fare a misura per loro e per la rampicante bianca, a risarcimento per lo sradicamento subito.
Aver cambiato il clima dell’Alto Monferrato con quello genovese ha permesso a molte piante di rinvigorirsi e dare più fioriture in una sola stagione: la clematide a grandi fiori viola che in Piemonte fioriva solo una volta a fine maggio, adesso rifiorisce fino a ottobre e le Lobelie blu elettrico che duravano una sola stagione, qui due, da un anno all’altro di ininterrotto sbocciare. In attesa di dare forma definitiva al nuovo spazio, ho organizzato tutto in vasi, mischiando la terra che avevo del vecchio giardino con la nuova comperata in sacchi. La terra: la sola pozione di gioia che invece di essere bevuta, va semplicemente annusata!
Pur nella costrizione dei vasi e di un giardino in cui guardano incombenti i palazzi dei dintorni e non soltanto il cielo e le rondini, c’è ancora stupore e sorpresa per chi le sa cercare. Qualche mese fa ho scoperto in quattro vasi differenti altrettanti alberelli di albizia. Ne possedevo un grande esemplare che troneggiava nella parte più soleggiata del frutteto, ma lì non si era mai sognata di riprodursi. I quattro giovani ribelli sono riusciti a dormire un anno nella terra e improvvisamente ora vengono fuori con irruenza, e anche una certa loro eleganza tipica delle Mimosacee. Quando si addormenteranno in pieno inverno, lasciando a terra rametti e foglie, le trasferirò in spazi adeguati.
Ma la scoperta più bella risale al mese scorso. Avevo già notato una piantina “strana” dentro il vaso di una cactacea, l’ho osservata crescere, diventare quasi mezzo metro e poi fare dei piccoli boccioli che si sono aperti in una bella infiorescenza rosa. Grazie all’erbario l’ho individuata, si tratta di un esemplare di Epilobium montanum, il garofanino di montagna, una specie mai vista in campagna né tanto meno qui in città.
Dedico a Pia questo fiore nato inaspettatamente.
Sono trascorsi due anni dal 26 luglio 2016, in cui è scomparsa. Pia parlava e scriveva sempre in maniera sommessa, così a volte è fin troppo facile pensarla ancora qui, a una distanza comunque raggiungibile.
Come tutti noi, penso Pia spesso. Alda Merini in una poesia paragona le proprie braccia a grondaie che incanalano le lacrime, anche noi abbiamo braccia per incanalare acqua nella terra che amiamo, che fiorisce e che fruttifica e che ci unisce a Pia.
Epilobium montanum ha anche un’altra particolarità: adesso che sta andando in semenza i suoi steli diventano ali fatte di un tessuto lievissimo simile alle piume e di semi pronti a prendere il vento. A giudicare da quante se ne stanno formando, credo che il garofanino abbia fatto solo una tappa nel mio giardino per espandersi tutto intorno, magari proprio nel boschetto qui a fianco.
E tu Pia? Dopo una breve tappa qui, tutti i tuoi semi non sono forse sparsi a fruttificare fuori e dentro di noi, nel tuo giardino, nei tuoi scritti e nella tua essenza che si muove libera, e sorvola tutto quanto come in un quadro di Chagall?
Ilaria Beretta
26 luglio 2018