Letture

PURGATORIO VEGETALE

La miglior forma per un giardino è il quadrato, rinchiuso su tutti i lati da una maestosa siepe ad archi. A me piace ripetere questa frase di Bacone, quasi una formula magica, quando passeggio nel  mio giardino incolto e trascurato. Quelle che una volta erano siepi di bosso ben curate, ora portano i segni della dimenticanza e dell’incuria. Non vengono potate che di rado, così i nuovi germogli di un verde chiaro e tenero si staccano dal resto dell’arbusto scuro e coriaceo. Spesso, camminando distratta per sentieri invasi e in parte cancellati dalle erbe spontanee, mi imbatto in  grandi ragnatele che fitte e vischiose si tendono da ramo a ramo, da pianta a pianta. Le più inquietanti, le più sacre si dispiegano sotto il pergolato del glicine. Per liberarmi il viso, i capelli, non vorrei mai lacerare l’ordito di quel lavoro paziente, meticoloso e perfetto. Lo faccio a malincuore, allontanandomi in fretta, senza soffermarmi sull’entità della ferita procurata. All’ombra dei tigli e dei noccioli è cresciuto, nel corso degli anni, un sottobosco rigoglioso e tenace di ortiche, di gramigna, di germogli d’amarena, di rovi… e che ora, ben protetto da cortine di edera che pendono dai rami e che si muovono debolmente nel vento, prospera e si moltiplica indisturbato. Dopo anni di negligenza si stenta a riconoscere vicino a casa le tracce del viburno, del lilla, della passiflora.
Nel giardino non ci sono luoghi vietati alle galline: esse razzolano ovunque, scavano buche per i bagni di polvere lungo lo stradello o dove la terra è più morbida, più calda, sotto i noccioli per esempio, e poi vi si accoccolano per ore. Spesso dentro le siepi o nella fontana  trovo uova  bianche, bellissime lasciate per me – così mi piace credere – sulle  foglie secche, come un dono.
La fontana  non è più in funzione da anni perché l’arenaria della vasca è solcata da crepe profonde e da fessure. Il mosaico che l’adornava è invaso da un’erba grassa, ben radicata nelle tessere di pasta di vetro sfumate d’azzurro, di blu, di giallo. E un muschio raso e tenace cresce lungo le decorazioni e nei mascheroni della colonna centrale  e  ricopre la lunga serpe in ferro battuto da cui sgorgava l’acqua con un getto felice verso il cielo. Adesso nella sua buia  gola abitano le vespe che in estate, da lontano, osservo nel loro febbrile andirivieni, nella loro sterile eccitazione. Il giardino è popolato di diverse varietà d’uccelli, ma si possono incontrare anche scoiattoli dalla coda fulva che si arrampicano squittendo lungo i tronchi degli alberi, e che spariscono in un baleno saltando agili da un ramo all’altro; lepri  sempre in fuga, e leprotti che girano in tondo intorno ai noci nelle notti di luna piena; fagiani che trovano rifugio nell’erba alta; giovani caprioli che vagano spauriti; e anche sciami d’api che arrivano in nuvole scure, e che con un ronzio pauroso e metallico si posano sopra il ramo di qualche pianta  in attesa di  una sistemazione definitiva.
A volte, quando lo percorro  senza altro scopo se non il solo gusto di visitarlo, di sentirmi in lui, parte della sua vita selvaggia, di respirarlo, odorarlo, toccarlo, gustarlo mangiando bacche e foglie e frutti imbastarditi, di inebriarmi di lui in ogni stagione, d’improvviso mi assale una domanda: Com’era questo giardino quando vi passeggiavano i pavoni? Quando ci si perdeva in domestici labirinti, in grotte pittoresche, in radure dove vasi di mirto scolpito si alternavano a quelli dei limoni, degli aranci? Com’era quando il perimetro era ben disegnato dalla siepe di bosso, di lauro ceraso e dalle file dei pioppi ?Quando  gli alberi del frutteto ancora giovani davano frutta saporita, la vigna uva bianca e nera, la fontana acqua e bordure di fiori accompagnavano dal cancello  fino alla villa ora in abbandono? Perchè un tempo era così. Lo so. Me lo hanno raccontato. Anche se non ce n’era bisogno: mi basta chiudere gli occhi e ascoltare dentro me l’eco lontana del Giardino dell’Eden per saperlo.
Pure io non vorrei un giardino diverso da questo. Vi accadono meraviglie. Abbaglianti felicità. Illusioni simili a certezze. Per esempio il mare. Cammino lungo il viale dove salici argentei sono stati spezzati dal vento  perchè troppo vecchi o resi fragili per i formicai  nascosti  nel tronco,  prima di arrivare al cancello chiuso c’è un boschetto di betulle dove io mi fermo perché quello è il punto migliore per vederlo. Alzo gli occhi e cerco con lo sguardo le cime dei pini, poi lo lascio scivolare oltre i platani, spingersi a toccare le magnolie, trattenerlo per un breve attimo prima di tuffarlo  nel mare che sciaborda  immenso ed eterno contro la siepe delle rose, come in un sogno.
La miglior forma per un giardino è il quadrato, rinchiuso su tutti i lati da una maestosa siepe ad archi. Così dice Sir Francis Bacon che tende alla perfezione, ma io non cambierei questo giardino dal perimetro incerto e diseguale, dalla incontrollata vitalità vegetale con nessun altro.
Lui è il mio specchio.
L’ho capito una mattina d’estate quando dalla finestra ho visto  la balaustra che separa la casa dal giardino macchiata di rosso. Erano i fiori del melograno, lo sapevo, pure, quel rosso caduto nella notte mi  è sembrato sangue. Sono corsa fuori.
È il sangue del giardino, ho detto. È il mio sangue. Il sangue dei miei giorni. E ho teso una mano a sfiorarlo con reverenza e turbamento. E mentre ero lì, davanti a quel sangue che seccava nel sole e che solo le farfalle nello loro compiuta bellezza sembravano non temere –  infatti si alzavano in volo stordite dopo aver a  lungo sostato tra i petali –  mi sono inginocchiata e ho pregato, e reso grazie al Signore dal fondo del mio domestico Purgatorio vegetale.
Anna Maria Dadomo